Riproponiamo il primo degli interventi di Gianni Celati apparsi a proposito della sua traduzione dell’Ulisse di Joyce, che uscirà per Einaudi il prossimo febbraio. Tratto da Il Sole 24 ore del 29/7/2012.
Così suona il disordine di «Ulisse»
Uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei si confronta con uno dei testi cardine del Novecento. E racconta, a partire da oggi, la sua sfida e i suoi dubbi con il capolavoro di Joyce. Fatto di musica e vita vera
di Gianni Celati
. . .
Ho iniziato la mia traduzione dell’Ulisse di Joyce sei anni fa. Gli amici della casa editrice Einaudi ci avevano messo tre anni per convincermi ad assumere questo compito. Infine ho detto di sì anche perché mi ero spesso figurato la possibilità d’un simile lavoro, fin dai tempi dell’università, quando mi ero laureato con una tesi su questo libro. Il mio professore d’inglese, Carlo Izzo, faceva parte del gruppo di esperti che avevano revisionato la prima traduzione italiana dell’Ulisse, nel 1960, ed è lui che mi aveva introdotto a questo romanzo, tanto meraviglioso quanto difficile da affrontare. Se ci penso adesso, vedo una specie di flusso oceanico dove ci si perde continuamente, e quasi a ogni pagina si va incontro a un azzardo; nel tentativo di trovare qualcosa che somigli al testo originale.
La regola delle dodici ore di lavoro al giorno non mi portava avanti molto. Certi giorni riuscivo a tradurre passabilmente tre o quattro pagine, non di più. E i dubbi erano sempre troppi: cioè gli aspetti incerti d’una lingua che capivo solo vagamente. Perché quella dell’Ulisse non è precisamente una lingua, è una stralingua, che prende dentro echi di tutti i generi. È un coacervo di parlate britannico-irlandesi, gerghi fossilizzati, chiacchiere da pub, stilemi di varie epoche, fraseggi da giornale o da canzonetta, reminiscenze letterarie e voci antiche; come quella parola trovata in un testo trecentesco del Kent, che appare un paio di volte ma resta nella memoria (io l’ho tradotta con una voce latina, Morsura animi, per mantenere il sapore d’una voce antica).
A un certo punto ho capito che dovevo spingermi in simili azzardi per seguire la vena joyciana, e accettare il disordine delle parole, le mescolanze, la variabilità delle fantasie. Nei primi episodi ci sono sequenze lineari con cui seguiamo una mattinata di Stephen, o l’uscita di casa di Bloom, con la sosta in un bagno pubblico. Ma poi subentra un crescendo di variazioni d’argomento, dove spesso dobbiamo intuire alla cieca dove ci portano. E verso la metà del libro cominciano ad apparire anche inserzioni di brani disparati, come la lettera d’un boia che presenta le proprie credenziali, o una prosa trecentesca con lunghe subordinate, o pagine che imitano prose settecentesche. Quasi impossibile tradurre simili funambolismi senza appiattirli, anche perché il lessico joyciano ha un’espansione senza paragoni (l’Ulisse è il libro con un lessico più espanso di tutti i testi stampati che conosciamo).
Ma credo che tutte queste difficoltà si superino, a patto di non avere fretta e di accogliere con simpatia il disordine delle parole. Per questo non è importante capire tutto: è più importante sentire una sonorità musicale che diventa più riconoscibile proprio quando ci sembra di piombare in un flusso disordinato di parole. L’Ulisse è un libro in cui la musicalità è l’aspetto decisivo per tutti i rilanci, deviazioni, sorprese, iterazioni monologanti. È un libro scritto da qualcuno che doveva diventare un tenore, e aveva dò che i musicisti chiamano «l’orecchio assoluto»; e infine un autore che ha saputo ritrasmettere sulla pagina questa speciale forma di percezione che è la musica, al di là del senso oggettivo o assertivo delle parole.
Joyce, irlandese che ha abbandonato l’Irlanda, nel 1916 comincia a scrivere un romanzo ispirato all’Odissea; poema in cui si narra il ritorno di Ulisse in patria, dopo lunghe peregrinazioni da un punto all’altro del Mediterraneo. Ed è questa peregrinazione in un ambiente estraneo l’aspetto che più ispirerà Joyce, nello sviluppo del suo grande libro. Ma l’ambiente di questa nuova peregrinazione epica sarà la città di Dublino, e il nuovo Ulisse sarà l’uomo medio, moderno, sensuale, e spesso anche un po’ buffo.
Il protagonista joyciano è Mr. Leopold Bloom, venditore di inserzioni pubblicitarie, nato in una famiglia ebraica, per cui viene spesso trattato da estraneo o straniero, e una volta rischia d’essere bastonato. Ed ecco la storia narrata nel libro: in una giornata estiva dell’anno 1904, Mr. Bloom attraversa vari luoghi dublinesi, per il suo lavoro o per altri motivi, dal mattino fino a notte alta. Il punto focale della sua peregrinazione è la vita qualsiasi, la vita senza niente di speciale, la vita come un sogno o un lungo chiacchierare con se stessi. Questo è ciò che fa Bloom, osservatore esemplare e straordinario sognatore, che ci guida per gran parte del libro. L’altra novità, rispetto all’eroe antico, è il rapporto tra il dentro e il fuori nell’individuo moderno. È ciò che viene chiamato «flusso di coscienza»: quel continuo succedersi di pensieri e immagini che accompagnano Mr. Bloom nella sua peregrinazione. Qui il lettore si trova a dover seguire due prospettive del pensiero: quella pratica, rivolta verso l’esterno, verso saperi e regole da rispettare, e quella divagante, sognante, rivolta verso l’interno. Così il lettore rimane sempre in bilico tra le frasi che descrivono il mondo esterno e quelle che sono emergenze dei nostri pensieri intimi.
Ed è un liberatorio disordine della vita, rispetto alle regole sociali, perché le percezioni esterne e quelle interne si mescolano, concedendo all’individuo moderno molti momenti d’un pensiero non condizionato. Però questo è anche il punto di difficoltà, nel mantenere fluido il fraseggio.
Esempio. Nel quarto episodio, Bloom va dal macellaio e qui vede una servetta del vicinato, che attira la sua attenzione e concupiscenza. Poco dopo, torna a casa, mangia il rognone che ha comprato, poi esce nel giardino e ripensa alla servetta, con queste parole: «Forse sta mettendo i panni ad asciugare. La serva era in giardino a stendere i suoi panni, quando arrivò un barbagianni…».
Nel testo joyciano non c’è la mia sottolineatura, per far capire al lettore italiano che si tratta d’una canzoncina che gli è passata nella testa. Perché, mantenendo il testo joyciano com’è, il nostro lettore non capirebbe se si tratta d’una presenza effettiva della servetta, o d’una fantasia canora spuntata nel cervello di Bloom. Cioè: non distinguerebbe le percezioni esterne dal «flusso di coscienza» del nostro personaggio. Questa dubitazione riguarda svariati casi del genere, con stati di perplessità a cui il lettore deve abituarsi.
E anche questo nella traduzione diventa un problema, a cui qui cerco di dare una risposta. L’esempio che ho portato mi fa pensare che gli irlandesi sono (o erano) molto più canterini dei nostri connazionali (d’oggi); e la fioritura di canzoni o brani d’opera lirica sulle loro labbra è qualcosa sui cui Joyce insiste in tutto il libro, facendone un fenomeno locale. Ma questo mi riporta al fatto che Joyce non riesce a pensare una frase che non sia un fatto musicale, al di là di tutte le imperanti categorie di verità logica o di certezza dialettica, che l’umanesimo ha lasciato in eredità a tutto l’occidente.