Siamo lieti di dare spazio a un intervento inedito di Aldo Busi, che ha per argomento il lavoro del traduttore. Il testo è dedicato, per espressa volontà di Busi, a Glauco Felici, traduttore e ispanista scomparso da pochi mesi.
Omaggio a Glauco Felici (1946-19 settembre 2012), traduttore
2) Nota (non completata) in appendice alla traduzione (inedita, interrotta al sonetto 103) dei Sonetti di William Shakespeare
Soprassediamo al luogo comune che tradurre è tradire, e passiamo direttamente alla domanda una e trina: nel tradurre, quanto è determinante il guadagno che si ha rispetto alla perdita che si patisce? e quanto conta il passato dell’originale rispetto al presente della traduzione che se ne fa? chi ha il sopravvento su chi? Rispondete affermativamente per un verso o per l’altro a una sola di queste questioni e sarete, sì, sicuri di quel che state facendo, ma ancora non saprete nulla del tradurre in sé. Nel mare della conoscenza, in cui due rive si guardano ma sono remote e di fatto spesso dislocate una troppo in alto e l’altra troppo in basso rispetto a ogni ideale e convenzionale medietà di comodo (geografica, storica, linguistica e retorica, infine) non si potrà mai andare oltre l’assunto che il guadagno è implicito nella perdita e la perdita implicita nel guadagno.
Gli antichi scopritori di nuovi mondi dicevano che non è necessario vivere, è necessario navigare: è il viaggio verso il lido altrui che connota l’avventura dell’essere umano, non la sedentarietà in casa propria. Sotto qualsiasi forma, compresa quella privilegiata della mente, noi non facciamo altro che spostarci da dove siamo, noi vogliamo conoscere dell’altro e per farlo dobbiamo o piegarci a staccarci dalla nostra riva o sperare che la riva opposta si congiunga a noi come può.
Non c’è motto (tecnica, visione, senso) a noi contemporaneo che non debba la sua origine a un moto – a uno spostamento del sé verso un luogo non ancora suo – a opera di qualcuno di cui si è persa memoria. Noi stanziali, che diamo per scontata l’attuale agnizione fra di noi simili stanziali come noi, siamo parlati per transazione nomade e migratoria a opera di sconosciuti pionieri del passato molto di più quanto non crediamo di parlare in prima persona. La nostra stasi, o apparente stabilità, individuale e collettiva è il risultato di peripezie, sommovimenti, incroci, commerci, scambi, scontri, spargimenti di sangue antichissimi e allo stesso tempo perduranti anche se invisibili. Sempre meno invisibili, in verità: vedi la contaminazione anglofila di tutte le lingue indigene vuoi orientali vuoi occidentali, poiché è la supremazia della coltura degli armamenti che determina la subalternità della cultura delle genti, è la vistosità della possibilità dell’attacco che fa piccina l’autodifesa, è la gigantografia dello spauracchio della guerra che striminzisce il fantasma della libertà dando luogo allo sventolio di bandiera bianca di una pace inflitta. E’, infine, la potenza del primato delle armi a stabilire la debole flessione della rima. E’ sempre il lessico dei vinti a proclamare chi ha vinto, poiché anche le lingue, non solo i suoi parlanti, vanno in soccorso del vincitore.
Ma questo, che è l’argomento, è per il momento un altro argomento, e lo lasciamo proprio come lui ha lasciato noi italiani: alla deriva, e senza più alcuna occasione di andare all’arrembaggio chissà per quanti secoli. Per fortuna, saremo già quella tutt’altra cosa che siamo da sempre e nessuno si sarà accorto di niente. Staccherà gli ormeggi della sua barchetta di carta galleggiante nella vasca da bagno e lui griderà la sua sete di libertà e di conoscenza dall’alto del suo pennoncino: sarà un ennesimo “Parto!” indolore.
Tra-durre, dunque, portare e portarsi da un luogo all’altro (e possibilmente fare ritorno, poiché il vero viaggio lo si fa di nuovo verso casa), a me sembra il corrispondente a terra del viaggiare per mare fino a pochi secoli fa: mercantile, guerrafondaio, colonialista, deportazionista, piratesco sempre. Non c’è niente di pacifico e di crepuscolare nel navigare dei nostri avi, nemmeno la fuga dell’esule e dell’esiliato e del perseguitato concilia lo spostamento forzato con un qualche romanticismo. Navigare era una faccenda terribilmente materiale e drammatica, di vita o di morte, che escludeva ogni spirito di avventura per l’avventura: si navigava per un traguardo ben preciso, ben pianificato, anche se poteva essere erroneo l’approdo come per Colombo. Nell’epoca moderna non si è navigato per piacere o tanto per fare o “per dimenticare”, un amore infelice o tout court, fino a quasi la comparsa di Internet.
Tradurre è necessario dunque come viaggiare? Tradurre per chi sta fermo è necessario come viaggiare per chi, una volta dovuto, ora sa e può muoversi? Poiché, anche dati i compensi del traduttore: una pura perdita calcolata in anticipo, si viaggia per sé, ma si traduce per gli altri.
Tradurre, trasformare il sé in altro per una migliore comprensione del problema dell’identità propria e altrui, è vitale. E ogni Bravo Traduttore, pur di conservare intatta la radice e più gemme possibili, si assume di decidere quali sono i rami morti da tagliare; se invece è affetto dalla mania e dalla mitomania integraliste di trapiantare tutto l’albero da un certo clima in un clima a esso del tutto alieno (per epoca, convenzioni, linguaggio, registri) e costruendogli attorno artificialmente un paesaggio vero per rendere più verosimile lo sforzo mimetico, avremo sì, in apparenza, un albero intero e integro ma in sostanza di morta segatura che non dà alcun frutto. Non c’è innesto riuscito senza previa potatura.
Siccome il Bravo Traduttore sa anche andare al sodo e quando occorre, esperto com’è nella pratica, è di modi spicci con ogni ridondanza di teoria, un’altra domanda cruciale che si pone è: qual è il carico di note a piè di pagina che può tollerare, per esempio, una composizione di quattordici righe senza venirne sepolta? quanto mi è lecito violentare il testo per esplicitare al suo interno quanto normalmente dovrebbe stare negli apparati di comprensione senza i quali nessun lettore, nemmeno quello bravo, capirebbe quanto ha appena letto?
Infine: quanto è possibile per il Bravo Traduttore non trasformare una semplice lettura in uno studio da erudito che, se erudito è, mediamente non ha alcun bisogno della traduzione ma va direttamente all’originale? Cosa traduco e per chi lo traduco?
Il Bravo Traduttore, che ha un’ambizione infinita, se è geniale comincia subito col porre dei paletti alla velleità di sostituirsi all’originale: si pone dei limiti, oltre alla precisa determinazione di sfruttare fino all’ultimo accento il testo originale nel senso di esaltarne l’irripetibile modulazione estetica di partenza senza scadere nella mera elementarizzazione atta alla comprensione contenutistica della sua versione d’arrivo. Tradurre è il contrario di rendere accessibile a prescindere dalla forma della fruizione finale, avremmo allora il traduttese, cioè quel linguaggio che, invece di pedinare sillaba per sillaba le forme originali del veicolare senso in quel dato modo e in nessun altro, fa il riassunto “di quanto voleva dire l’autore” e lo scarica all’ingrosso nella fogna sommaria del “messaggio” e della “comunicazione al lettore” (di bocca buona), tradendo e l’originale e l’energia estetica della propria lingua e il lettore (comune o no che sia: suvvia, non facciamoci illusioni al di sopra delle possibilità reali del paese). Questo lettore, non avendo termini di raffronto, prende per oro colato l’unico piombo sul mercato o l’unico su cui è caduto lui e morta lì – realisticamente, nessuno può credere, e non solo in Italia, che chi ha letto una volta una cosa in una traduzione sia così consapevole delle problematiche del linguaggio da andare a leggersela una seconda volta in un’altra traduzione: è risaputo che solo chi non ha mai letto prima afferma di rileggere, e questo specialmente in Italia.
Come sanno i ben informati che meglio non si può, per la Frassinelli Editore io dirigo una collana denominata “I Classici Classici” la cui specialità sta nelle nuove traduzioni di capolavori fuori diritti e in alcune scoperte di capolavori mai tradotti prima in italiano, notamente Pamela e Clarissa di Richardson (per opera di Masolino d’Amico) e L’età della stupidera e Setteformaggi di Jean Paul /inserire nome del tradut./ [Umberto Gandini, ndr]. Ho tenuto corsi di pratica della traduzione in parecchie università e interni alla casa editrice al fine di svecchiare i birignao del traduttese di cui dicevo poco fa e per ottenere una lingua italiana scattante, attuale, viva e rispettosa di tutti i registri degli originali (non dimentichiamo che, mentre nella tradizione letteraria italiana il registro che prevale è quello aulico-accademico o di corte e, in altre parole, libresco, nei capolavori francesi, inglesi e tedeschi prevale, già a partire dal Seicento, non dico un linguaggio-di-tutti-i-giorni, ma un colloquialismo mondano via via sempre più “realistico e popolare” in chiara opposizione alla tradizione della scrittura sapienziale e propriamente claustrale, e proprio grazie alla traduzione nelle rispettive vulgate locali della Bibbia che per quanto colta sempre vulgata resta rispetto all’italiano suo contemporaneo al quale era stata negata la divulgazione della traduzione del Diodati[…]