Nemo Nobel in Patria? Dal Canada, Susanna Basso sulle tracce di Alice Munro

Siamo molto lieti di pubblicare il piccolo reportage che ci ha inviato Susanna Basso. Senza farlo apposta, un viaggio in Canada già previsto si è trasformato nell’occasione giusta per osservare le reazioni suscitate dal Premio Nobel per la letteratura conferito a Alice Munro. E di nuovo senza farlo apposta, proprio oggi, 15 novembre 2013, ricorrono gli ottant’anni dalla fondazione di Einaudi, l’editore italiano di Alice Munro. Quindi, giornata di festeggiamenti generale (auguri, Einaudi, ottanta di questi Nobel!).

 

Nemo Nobel in patria?

VIAGGIO IN CANADA DI UNA TRADUTTRICE

di Susanna Basso

Chissà che cosa mi aspettavo. Un Canada in festa? Il nome di Alice sulla bocca di tutti, i suoi libri negli aeroporti accanto allo sciroppo d’acero e alle confezioni di salmone marinato? Niente di tutto questo, invece. La prima tappa del mio breve viaggio canadese del resto è Calgary, una città ricca per gli oleodotti e i gasdotti, fredda per le montagne intorno, indaffarata e piuttosto distratta, più incline alle speculazioni in borsa e agli sport invernali che alla lettura, sospetto. Per ragioni misteriose i manoscritti dei racconti di Alice Munro sono conservati nella biblioteca dell’Università locale, ma sono io a informarne i miei ospiti che accolgono la notizia con comprensibile scetticismo e tiepido interesse.

Appena sistemata in un albergo senza personalità e con tanti lussi, decido di uscire per andare un po’ incontro a questo paese nuovo per me, dopo dodici anni che lo perlustro attraverso le storie che traduco. Scopro che Calgary è una specie di interminabile centro commerciale. Per ovviare al freddo intenso dell’inverno, l’architettura della città collega i grattacieli del downtown con una serie di passerelle aeree, perciò il pedone/turista può entrare in un edificio e non uscirne più, ma seguire un percorso tra scale mobili e giardini verticali. Ecco Dolce e Gabbana, H&M, Giorgio Armani, Tod’s, file e file di catene commerciali. La gente scivola silenziosa dentro e fuori negozi tutti uguali; vedo una coda di persone e mi chiedo cosa aspettino con tanta pazienza: l’apertura di Starbucks. Questi corridoi sono pieni di caffetterie, piccoli locali, ristoranti, ma è evidente che la giornata deve incominciare con un frappuccino, magari aromatizzato alla zucca e alla cannella, data la stagione.

Finalmente noto un’immensa libreria: ecco, mi dico, ora lei ci sarà, la sua foto, le tante raccolte di racconti, sarà piena la vetrina. Non proprio. Tra agende di Hello Kitty e Moleskine, coperte in finto pelo d’orso e grossi cuscini a forma di corna d’alce, vedo solo libri gialli, romanzi di paura, streghe e fantasmi per bambini, un trionfo di mostri e l’immancabile promessa del meglio in fatto di terrore: Halloween batte Premio Nobel uno a zero. Mi viene in mente Allen Ginsberg e il suo Supermarket in California: …and you, Garcia Lorca, what were you doing down by the watermelons? Già, che ci faceva Garcia Lorca tra le angurie, e che ci fa ora Alice Munro tra zucche di peluche e grossi ragni di plastica?

Mi dirigo al mio primo appuntamento del festival letterario di Calgary: qui, immagino, non potranno certo passare sotto silenzio un evento così recente, così notevole, così unico. Sembra che possano, invece. Non una parola. Ascolto la presentazione del libro di un ecologista. Sembra molto sicuro e trafelato: ci spiega che il Canada ce la può ancora fare, ma che l’Europa è ormai la discarica del mondo occidentale. Tanto vale lasciar perdere. Dichiara che nessuno mai lo convincerà più a ingoiare niente che non sia coltivato a meno delle ideali cento miglia da dove si trova. Il fatto di provenire dalla discarica del mondo e di aver intravisto questo zelante salvatore del pianeta aggirarsi per le sale dello stesso albergo energeticamente insensato che ospita anche me sottrae un po’ di entusiasmo al mio ascolto. Decido di non comprare una copia del suo libro e dedico questo gesto ai pioppi.

Di Alice, ancora niente.

Sono in Canada ormai da due giorni. Il terzo giorno mi sposto in un paradiso tra le Montagne Rocciose, punto d’incontro di giornalisti, poeti, traduttori. E’ tutto bellissimo qui a Banff : l’aria profumata, l’alba sulle vette già bianche di neve, i laghi, la sala a vetri della colazione. Un posto privilegiato. Anche qui, si susseguono gli incontri di scrittori. Ormai le mie aspettative si sono un po’ ridimensionate; resta comunque un velo di sorpresa.

Mi siedo in una sala e ascolto alcuni autori leggere qualche pagina delle loro “ultime fatiche”. Registro mentalmente una scena di sesso improvvisato tra una casalinga e un venditore (credevo fossero categorie estinte in letteratura, tutte e tre, le scene di sesso improvvisato, le casalinghe e i venditori, ma a quanto pare mi sbagliavo.); un dialogo semi-amoroso tratto da un romanzo storico spesso come un vocabolario; la descrizione di una taverna di Parigi ai tempi di Degas (Degas è infatti uno dei personaggi della storia di cui è coprotagonista la giovane che fu modella per la celebre scultura della Piccola danzatrice). Appena colgo gli aggettivi «losco e fumoso» per definire il locale parigino mi distraggo. Sento che incomincio a diventare acida. Questi autori scrivono i loro libri con onesta cura, con talento e forse anche con ironia; perché mi sembra tutto un sopruso? Sarà solo il jet-lag?

Alla fine cedo: devo chiedere a qualcuno. Devo sapere come mai. Mi scelgo un interlocutore che mi pare disponibile e mi presento come una rappresentante di una città italiana nota per l’understatement, ma aggiungo che niente mi aveva preparata a questo silenzio. Perché nessuno nomina Alice Munro? Mi è sfuggito qualcosa? La reazione di David MacFarlane, giornalista del «Toronto Star» e pluripremiato autore di opere di narrativa è molto appassionata. Mi chiede di più sulle mie aspettative deluse; gli parlo di celebrazioni, entusiasmo, festeggiamenti. Chiede di potermi mandare il pezzo che ha scritto per il suo giornale alla notizia del Nobel a Alice Munro. Lo ringrazio e torno subito in camera per leggerlo.

Eccolo:

I could have sent a letter to Alice Munro, I suppose. I could have written her a note about how great it was to hear that she’d won the Nobel Prize. But she’s probably getting lots of notes – from people she knows and people she doesn’t — and judging from the courteous decency that underlies her writing, it’s possible that she feels compelled to answer them. I wouldn’t want to add to the pile of obligation on her desk.

Heads of state, publishers, editors, agents, and friends are the ones who probably have sent flowers. There’s something a bit too grand (as one of her characters might have pointed out) about anyone else tracking down her address and calling up a florist.

Still, when a Canadian writer wins the Nobel Prize it feels as if the occasion should be marked by celebration. I hope her rooms are overflowing with delivered flowers. If she were a hockey team she’d be waving at crowds from the back-seat of a slowly-moving convertible.
So here is how I decided to celebrate her achievement. I like to think that she would approve.
I went to bed early and slept well. Then I got up before five.
After I made coffee, I went to the bookshelf and, almost at random, selected one of the Alice Munro collections that were lined up there. It was
The Love of a Good Woman published in 1998. I opened it and chose a story – once again pretty much at random. The story is “Cortes Island” and I sat down in my favourite place, at my favourite time of day to read.
The sky was still dark. The black coffee was hot. The house was silent and the city almost quiet. I was what Alice Munro must always hope readers will be: undistracted, wide-awake, and not in a rush. In honour of the Nobel Laureate I was going to read an Alice Munro story with slow, luxurious attention. It would be like putting on a piece of music I already know I love.
I was going to enjoy her clever, unobtrusive structure. I was going to appreciate her ear for dialogue (snippets of dialogue, usually) and her genius for observation. I was going to relish the cadence of sentences that fit so naturally into her unfolding narrative they manage not to draw attention to how beautifully written they are. I was going to take pleasure in her clear, unfussy language. I was going be delighted by how good she is at telling stories.
I’m always a little skeptical of the claims that a country makes on its writers. Literature has so little to do with nationalism that a “Canadian” writer can be about as useful a description as “silver-haired.” Still, there’s no denying that being Canadian brings an added pleasure to reading Alice Munro. It’s like having a really good seat at the theatre. When a performance is great, there’s nobody in the audience who feels left out. But there is something additionally wonderful about sitting near the stage, on the center aisle.
In Cortes Island Munro’s description of Vancouver is transporting to anyone who has been there. It’s not so much that you are reading about how “the leaves of the winter shrubs glistened in the damp air of a faintly rosy twilight.” It’s more like you are actually experiencing what Munro is describing. How does this happen?
I asked myself this question while reading “Cortes Island” the other morning. The sun was just coming up. The coffee was almost gone. And even though I was paying such enjoyably close attention to Alice Munro, I couldn’t quite figure out how she does what she does. I’m guessing by magic. And I decided, as I continued reading, to leave it at that.
(The Star, October 11, 2013)

Ed ecco la mia traduzione:

Suppongo che avrei potuto scrivere una lettera a Alice Munro. Avrei potuto scriverle un biglietto per dirle la mia gioia alla notizia che aveva vinto il Nobel. Ma chissà quanti messaggi le staranno arrivando (da gente che conosce e sconosciuta) e, a giudicare dal garbo dignitoso dei suoi scritti, non escludo che si senta in dovere di rispondere a tutti. Non mi va di accrescere il mucchio degli obblighi sulla sua scrivania.
Politici, editori, redattori, agenti e amici le avranno invece mandato dei fiori. Per gli altri sembrerebbe presuntuoso (come potrebbe osservare uno dei suoi personaggi) rintracciare il suo indirizzo e rivolgersi a un fioraio.
Eppure, se uno scrittore canadese vince il Nobel, ho la sensazione che l’evento andrebbe celebrato. Se Alice Munro fosse una squadra di hockey ora starebbe in giro a salutare la folla con la mano dal sedile posteriore di una decapottabile.
Perciò, ecco come ho deciso di celebrare il suo successo
Mi sono coricato presto e ho dormito bene. Poi mi sono alzato prima delle cinque
Mi sono fatto un caffè e ho preso dalla libreria, si può dire a caso, una delle raccolte di Alice Munro. E’ toccato a Il sogno di mia madre, pubblicato nel 1998. L’ho sfogliato e , ancora quasi a caso, ho scelto un racconto. Si intitola Cortes Island. Mi sono seduto nel mio angolo preferito all’ora del giorno in cui preferisco dedicarmi alla lettura.
Era ancora buio. Il caffè era caldo. La casa addormentata e la città, quasi silenziosa. Ero un lettore del tipo che Alice Munro deve prediligere: sveglio, concentrato, senza fretta. Per onorare il Premio Nobel, avrei letto un racconto di Alice Munro concedendomi il lusso della lentezza. Sarebbe stato come ascoltare un brano di musica che già sapevo di amare.
Volevo godermi le sue architetture invisibile e perfette. Assaporare il suo dono per il dialogo (frammenti di discorsi, perlopiù) e il suo genio per l’osservazione del dettaglio. Volevo sentire il ritmo di frasi talmente connaturate allo sviluppo narrativo da non richiamare l’attenzione sulla loro bellezza. Volevo riscoprire il piacere offerto dalla sua lingua chiara e senza vezzi. Entusiasmarmi della sua bravura nel raccontare storie.
Sono sempre un po’ scettico rispetto al vanto di un paese per i propri scrittori. La letteratura ha così poco a che fare con il nazionalismo che definire uno scrittore “canadese” mi pare poco più utile che dirlo “brizzolato”. Ciononostante non posso negare che essere nato qui aggiunge qualcosa al piacere di leggere Alice Munro. E’ come avere un buon posto a teatro. Se lo spettacolo è di altissimo livello nessuno tra il pubblico potrà sentirsi escluso. Ma sedere vicino al palcoscenico, diciamo in terza fila centrale, è un’altra cosa.
Per chiunque ci sia stato la descrizione di Vancouver in Cortes Island è incantevole. Non tanto perché vi si legge “«…nel parco che costeggiavo per tornare a casa, le foglie sugli arbusti sempreverdi luccicavano nell’aria umida di diafani crepuscoli rosati». E’ piuttosto la sensazione di essere lì, nel posto che Alice Munro ti descrive. Come succede?
Me lo sono chiesto mentre leggevo Cortes Island l’altra mattina. Intanto albeggiava. Avevo quasi finito il caffè. E benché stessi dedicando a Alice Munro tutta la mia attenzione appassionata non sono riuscito a spiegarmi come fa. Immagino che c’entri la magia. E mentre continuavo a leggere ho deciso di non chiedermelo più.

Rispondo a David MacFarlane: «Se quello che hai raccontato è la reazione media del lettore canadese, vuol dire che siete avanti anni luce rispetto ai rumorosi festeggiamenti cui avevo pensato di assistere. Complimenti».

Celebrare leggendo. Che meraviglia. Che lezione.

Eppure… una foto in una vetrina, qualcuno che citi il suo nome prima di leggere dal proprio romanzo, la citazione di un brano qualsiasi dalle sue storie. Ecco che ci ricasco. Comunque, sottovoce ma dal profondo del mio cuore di traduttrice: Congratulazioni, Alice!