Norman Gobetti, nostro redattore, ha vinto la IV edizione del Premio Nini Castellani Agosti, riservata quest’anno alla traduzione dall’inglese, una delle tre lingue da cui traduceva la titolare del Premio: alle altre due, il francese e il tedesco, saranno riservate la V e la VI edizione. Nelle prime tre edizioni il premio è stato attribuito a Susanna Basso per l’inglese, a Maurizio Cucchi per il francese e a Ada Vigliani per il tedesco.
Gobetti è l’interprete italiano di autori come, tra gli altri, Philip Roth, Martin Amis, Aravind Adiga, Amitav Ghosh Mohsin Hamid, Alan Weisman, Philip Gourevitch… La cerimonia della premiazione, come già per l’edizione precedente, si è svolta il 12 dicembre 2012 nell’aula magna dell’Agenzia Formativa Tutteuropa a Torino, sede della Scuola di Specializzazione in Traduzione Editoriale, presso la quale Gobetti insegna. Molto volentieri pubblichiamo gli interventi tenuti nell’occasione da Aldo Agosti, figlio di Nini Castellani Agosti, e Susanna Basso, Mariolina Bertini e Ada Vigliani, membri della giuria, nonché dal premiato.
Aldo Agosti
Con gusto e con scrupolo assoluto
Mia sorella Paola, che è il vero motore del premio “Nini Agosti Castellani” per la migliore traduzione dell’anno ed è stata il maestro cerimoniere delle precedenti edizioni, ha voluto che quest’anno il compito di presentare la IV edizione toccasse a me. Non credo che saprò farlo altrettanto bene. Quello che l’arte della traduzione ha rappresentato per la nostra famiglia ha saputo spiegarlo lei molto bene in un articolo che è uscito sul primo numero della rivista online “Tradurre”, una rivista bellissima, a cui Gianfranco Petrillo ha saputo dare non solo vivacità e leggibilità ma autorevolezza. Sì, siamo una famiglia di traduttori, e noi due siamo solo gli ultimi indegni rampolli, perché a nostro nome non sono registrate traduzioni che meritino di essere menzionate. Ma risalendo per li rami incontriamo personaggi importanti di questa nobile arte. La nostra nonna paterna Cristina Garosci Agosti, traduttrice dal polacco e dal ceco (abbiamo ritrovato una bibliografia, pubblicata da suo figlio e nostro padre Giorgio, che elenca un gran numero di opere tradotte, tra cui libri di Mickievicz e Sienkiewicz); sua sorella Clotilde Garosci, che tradusse dal ceco e dal russo; il nostro zio materno Emilio Castellani, notissimo e bravissimo traduttore dal tedesco di Goethe, di Brecht, di Toller e di altri ancora; la nostra zia materna Enrica (Ru), che sfornava traduzioni senza pretese ma inappuntabili dal francese, dall’inglese e dal tedesco, nostro padre stesso, che tradusse per Einaudi – allora appena diventata una casa editrice di nome – opere importanti di storia, soprattutto quella dell’illuminista scozzese William Robertson, I progressi della società europea.
Ma la vera traduttrice professionale della famiglia – nel senso che per molti anni ha dedicato tutto il tempo che le restava libero dalla cura di noi e dalla gestione della casa – era nostra madre Maria Luisa Castellani detta Nini, detta “Kleine” dalla sua amata cugina maggiore – Nini anche lei (Marrubini Zanardi), chiamata “Grosse”. Giochi di parole che riflettevano il gusto profondo per le lingue, così radicato soprattutto nel ramo materno della nostra famiglia.
Di Nini Agosti traduttrice dei grandi classici (da Jane Austen a Henry James a Robert Louis Stevenson) io non parlerò, perché in tanti ne hanno già parlato con grande sensibilità e infinitamente maggiore competenza. Personalmente, io ho letto e apprezzato soprattutto i racconti di James. Ma a me piace ricordarla traduttrice dei libri per ragazzi che mi hanno introdotto al gusto mai perduto della lettura (la lecture, ce vice impuni, era un’espressione – non ricordo onestamente di chi – che ho sentito spesso da nostro padre). A cominciare naturalmente dal Mago di Oz, passando poi per una grande quantità di libri americani ora da lei stessa personalmente tradotti (come un per me indimenticabile Le birichinate di William Brown, di cui non ricordo l’autore) oppure introdotti nel circuito della collana di letteratura per ragazzi di cui si occupava per la SAS, poi SAIE, la Società Apostolica San Paolo abilmente amministrata da Don Gabriele Piazzo, da noi detto familiarmente “il prete”: il ciclo dei Mohicani di Fenimore Cooper, L’isola del tesoro, Moby Dick, Incompreso. Si trattava spesso di edizioni ridotte per ragazzi, ma era una gioia leggerle, e chissà se me le ricorderei nello stesso modo se non le avessi lette in quella forma (alcune, lo devo confessare, solo in quella forma).
La mamma traduceva con gusto e con scrupolo assoluto: dal francese, dall’inglese, dal tedesco. Dal francese, poverina, le toccò, per amore materno verso il sottoscritto, tradurre una bella quantità di documenti della Terza Internazionale, impresa in cui ebbe compagna per le traduzioni dal tedesco Lia Pinna Pintor Bertini, la mamma dell’illustre membro di questa giuria Mariolina, e un’altra persona che ricordo con molto affetto, Pucci Saija Panzieri. Ma credo che la lingua da cui preferiva tradurre fosse l’inglese. Quando ne divenni abbastanza padrone (infinitamente meno di lei, però) qualche volta mi interpellava per controllare una sfumatura, un aggettivo o un verbo strano. Non perdonava i cattivi traduttori: che furono oggetto di aneddoti gustosi in famiglia (simili a quelli che si raccontano i professori di scuola o di università sul bestiario dei loro allievi). Indimenticabile resta per me la traduzione che le era capitato di rivedere, in cui a square carpet era stato tradotto come «una squadra di capretti».
Chissà se Norman Gobetti, il premiato di questa edizione, è mai incorso nella sua ormai lunga carriera di traduttore, in incidenti di questo genere. Mi stupirebbe molto, perché da lettore conosco non poche delle sue traduzioni, e le trovo straordinarie. Mi limito a ricordare, per non far torto a nessuna delle tantissime opere che ha tradotto da solo, quelle che ha tradotto insieme ad Anna Nadotti, Mare di papaveri e Il fiume dell’oppio di Amitav Gosh, uno sfoggio eccezionale di bravura per rendere una scrittura che – come loro stessi dicono – è “un vero arcobaleno linguistico”.
Ma mi fa enormemente piacere premiare Norman Gobetti anche per un altro motivo: perché il suo ricordo di lui per me precede di molti anni il suo esordio nel campo della traduzione. Doveva avere quattro o cinque anni quando, da solo o insieme a suo fratello Eric, un valente giovane storico che conosco meglio di Norman per averlo incrociato nella mia carriera di docente, teneva compagnia a suo padre, bibliotecario dell’Istituto di Storia di Magistero. Io ne facevo parte dal 1973, e come ogni recluta sbrigavo compiti che nei rigidi mansionari di oggi farebbero inarcare più di un sopracciglio: schedavo abbastanza grossolanamente i nuovi acquisti librari per soggetto. Per un paio d’anni, una mattina alla settimana, stavo nella stessa stanza di Franco, il padre di Norman e Eric, insieme alla mitica signora Edda Bosco, che era la segretaria amministrativa. Capitava che i due ragazzini, o uno di loro, fossero parcheggiati lì per qualche tempo. Non ho memoria di loro schiamazzi, ho invece un ricordo molto affettuoso di Franco, una persona mite e intelligente, che purtroppo se ne è andato troppo presto.
Perciò il fatto di accomunare il ricordo di nostra madre a quello del padre di Norman e di Eric mi rende felice e dà un significato particolare alla consegna del premio.
Ada Vigliani
Norman Gobetti e il senso della misura. Osservazioni e divagazioni in margine alla traduzione del libro di Philip Roth, Quando lei era buona
«Al soldato in camera di consiglio spetta un ruolo modesto», diceva il generale Stumm von Bordwehr, personaggio musiliano dell’Uomo senza qualità, che si sentiva un pesce fuor d’acqua alle riunioni dell’Azione parallela e tuttavia vi partecipava coscienziosamente, consapevole dei suoi limiti a fronte delle splendide analisi compiute da coloro che erano più competenti di lui. Un’analoga sensazione di spaesamento e di forte consapevolezza del mio ruolo modesto provo oggi nel’essere chiamata a parlare in occasione del premio Nini Agosti Castellani, conferito a Norman Gobetti per le sue traduzioni dall’inglese e in particolare per una delle sue ultime fatiche, la nuova traduzione del libro di Philip Roth, Quando lei era buona.
Devo infatti confessare fin da subito che la letteratura statunitense contemporanea mi è poco familiare, ne leggo solo sporadicamente, anche se il mio svezzamento di lettrice, dall’infanzia alla prima e alla seconda adolescenza, avvenne proprio con la letteratura americana, a partire da Hemingway. Ma la scoperta ancora in giovane età delle letterature di lingua tedesca (sulle quali da lunghi anni si concentrano i miei studi e il mio lavoro), mi hanno rapidamente riportata in Europa, e le mie attuali letture sono in prevalenza opere nate nel Vecchio Continente o di scrittori che, magari emigrati, sono però venuti al mondo su questa sponda dell’Atlantico. E, come è ovvio, quelli mitteleuropei sono al centro dei miei interessi.
La mia frequentazione di Roth riguarda dunque per lo più un altro Roth, il cui nome è Joseph e la cui lingua era il tedesco. L’origine però è la stessa, la Galizia asburgica da cui arrivavano anche i genitori di Philip Roth, quella terra dove la diaspora ebraica – la diaspora degli ebrei orientali – aveva trovato temporaneamente una sosta al suo congenito errare. L’ebreo errante Joseph Roth si rimetterà presto in viaggio fermandosi a Vienna e poi a Parigi, gli ebrei erranti ascendenti di Philip varcheranno l’Oceano e si fermeranno negli Stati Uniti.
Tranne questo passato prenatale non credo ci siano particolari affinità fra i due scrittori. E tuttavia, quando in questo romanzo di Philip Roth ho trovato più d’un riferimento a Santa Teresa di Lisieux, come lettrice del Roth europeo non ho potuto fare a meno di sobbalzare e tornare con la mente a un bevitore, che non è uno dei personaggi di questa storia del Roth americano, ma è il santo bevitore dell’omonima Leggenda con il suo debito d’onore verso la piccola Teresa nella chiesa parigina di Sainte-Marie des Batignolles.
Ma ora smetto di ricercare coincidenze affatto fortuite e di nessun significato, per tornare brevemente al tema. Che non è tanto Philip Roth, di cui io non sarei in grado di dire nulla di originale (e nemmeno di banale), bensì la traduzione di Norman Gobetti. La prima cosa che mi ha colpito durante la lettura del libro e che ha destato in me un profondo apprezzamento sono le parti dialogiche dell’opera. Un punto – il dialogo, soprattutto se un dialogo di argomento quotidiano – che può sembrare facile da tradurre, quasi elementare. E invece chi traduce sa quanto sia rischioso riuscire a rendere la banalità delle frasi di tutti giorni, là dove è agevole anche per il lettore meno smaliziato smascherare l’errore di ritmo, d’intonazione, dove è facile essere ingessati, oppure enfatici o invece sciatti.
L’ammirevole sicurezza nei dialoghi, che emerge subito dalla scrittura di Norman Gobetti, dipende probabilmente anche dalla sua frequentazione del linguaggio cinematografico, dai suoi studi sul cinema. È una sicurezza che emerge in particolare dal senso della misura con cui Norman Gobetti fa parlare i personaggi di Roth, perfino quando si arrabbiano, quando imprecano. Chi traduce (e non parlo solo dei dialoghi), preso dalla foga, tende facilmente a salire o a scendere un poco di registro, a enfatizzare o a sminuire, a creare traduzioni più o meno “sovraesposte” o “sottoesposte”. Traduttore prudente e paziente, che segue il suo autore passo passo, che mette le briglie non a lui, ma a se stesso, Norman Gobetti ha saputo far vivere per i lettori italiani l’atmosfera della provincia americana alla fine degli anni Cinquanta senza inutili impennate, senza sciatterie, focalizzando puntualmente con le sue parole ambienti e personaggi.
Dice Milan Kundera – uno scrittore che è sempre stato con il fiato sul collo ai suoi traduttori, forse perché, non potendo sperare di avere molti lettori direttamente nella propria lingua, fin quando scrisse in ceco dovette affidarsi ai traduttori per avere un più vasto pubblico – dice dunque Kundera che nulla tanto lo terrorizza quanto sentir definire “scorrevole” la sua traduzione e ricorda come anche Chopinfosse irritato quando le signore nei salotti esprimevano l’incanto provato nel sentirlo suonare dicendo: «Ah che bello, scorre come l’acqua!»
La traduzione che appiana, che leviga per far entrare l’originale nella camicia di forza della lingua d’arrivo è sempre stata vista con terrore dagli scrittori. Forse perché essi sanno meglio di chiunque altro che le lingue (di arrivo e di partenza), non stanno lì ferme ad aspettare, ma sono in movimento, e sono proprio gli scrittori e – se benedetti dall’ispirazione – anche i traduttori che le fanno muovere, le trasformano. Ebbene, le traduzioni di Norman Gobetti non “scorrono come l’acqua”, ma “corrono” veloci, non titubanti né incerte, senza dover essere per questo lisce, oleose, come coperte da uno strato di cera uniformante.
Mi sembra che, con la sua prudenza (che è appunto non sinonimo di irresolutezza, bensì di ferrea aderenza al testo), Norman Gobetti cerchi di strappare all’autore le sue peculiarità per riversarle nell’italiano, senza preoccuparsi di addolcire le asprezze, ma – e questa mi pare la sua principale caratteristica – senza nemmeno calcare la mano, con un grande senso della misura. Quella misura che è saper osare, quando è necessario, ma anche ritirarsi in buon ordine quando l’audacia sarebbe inutile sfoggio di sé, una misura che è forse la miglior prova della sua maturità di traduttore.
Susanna Basso
Norman Gobetti wanderer stanziale
Prima di tutto siamo qui grazie a una traduttrice. Nini Agosti ha tradotto libri bellissimi e amato questo lavoro quando a non molti lettori veniva in mente che esistesse, eppure circolavano in Italia traduttori che hanno saputo mantenere i classici all’altezza dei classici. Nini Agosti era uno di questi traduttori.
Siamo qui inoltre grazie a chi, per amore di Nini, ha dato vita a questa festa della traduzione. Oggi Norman è il festeggiato, ma tutti noi che a questo mestiere ci dedichiamo in vario modo, noi che abbiamo perfino cercato di viverne, siamo qui per goderci un premio senz’altra voce che questa: un premio per la traduzione.
Un amico traduttore del BCLT di Norwich ha recentemente incontrato un’amica traduttrice a Bangkok. Parlando del più e del meno hanno scoperto di conoscermi entrambi e pare che lui, Daniel, mi abbia definita una cupboard translator ovvero “traduttrice nell’armadio a muro”, da contrapporre ai wandering translators o “traduttore itineranti”, vagabondi, categoria di cui entrambi evidentemente fanno parte. Sono in effetti una traduttrice nell’armadio a muro; non lo considero né una vergogna né un vanto, ma una semplice verità. Da questa prospettiva ferma e anche un po’ incassata ho però avuto modo di osservare la lunga teoria di traduttori alle mie spalle e la nuova luminosa galassia dei wanderers. Giovani il cui armadio a muro ha assunto le sembianze mobili dei piccoli prodigi tecnologici che li seguono nei loro spostamenti, traduttori che risiedono nel mondo aperto e incommensurabile delle reti. Al loro confronto mi sento un po’ come il viaggiatore cerimonioso della poesia di Giorgio Caproni, quello che, dovendo scendere dal treno, chiede scusa ai passeggeri soprattutto per l’ingombro della sua voluminosa valigia della cui utilità non è nemmeno più tanto sicuro.
Norman Gobetti è un traduttore che definirei un “wanderer stanziale”, un quasi giovane (chiedo scusa ma ultimamente ho perso le coordinate esatte per definire la categoria) che la vita ha fermato grosso modo in una sede, ma che l’appartenenza a un mondo e a una generazione ha reso comunque navigatore. Mi sembra di trovare nella sua scrittura tutto ciò che costruisce la felicità di un lettore di traduzioni. Perché di questo, no?, noi ci occupiamo: della felicità dei lettori di traduzione. Vale a dire della qualità di questa felicità che dipende dall’impegno di restare accanto al testo fino all’ultima parola, dalla prima. Non importa se dalla prospettiva di un armadio a muro o da quella del mondo viaggiato in lungo e in largo, ma sempre con pazienza. La qualità è data dalla disponibilità a cercare e dal coraggio di scegliere, dalla consapevolezza della propria provvisorietà nel testo tradotto e dalla volontà di offrire al testo la propria leale testimonianza.
Ecco, nei lavori di Norman ho trovato l’eleganza classica, l’evidente impegno sistematico alla ricerca e un pressoché ininterrotto miracolo di specularità rispetto al testo fonte.
Provo a declinare meglio questa affermazione.
Per eleganza classica intendo la capacità di sporgersi su due lingue. Tradurre è un gioco continuo di equilibri negoziati, ma è solo sbilanciandosi prima, che l’equilibrio ottenuto in traduzione assume il nitore da alta montagna di un classico . (Se non si sperimenta un po’ di vertigine infatti, si rischia di ritrovarsi a lavorare con una sintassi asservita ai modesti fuochi d’artificio del lessico).
Per evidente impegno sistematico alla ricerca credo sia sufficiente ricordare non solo i nomi di alcuni autori che Norman ha tradotto (Martin Amis, Ralph Ellison, Philip Roth, Aravind Adiga) o le pagine di taccuino in cui racconta l’impresa di tradurre un romanzo come Geometry of God della scrittrice pakistana Uzma Aslam Khan, o la prosa perfetta del primo Bernard Malamud, ma anche il nome di una collega con la quale Norman ha collaborato, e cioè Anna Nadotti. Con lei Norman ha lavorato per esempio a Un mare di papaveri di Amitav Gosh. Il nome di Anna Nadotti è di per sé garanzia di eccellenza e senz’altro di impegno sistematico e meticoloso alla ricerca.
Infine, e vengo all’aspetto che forse più mi appassiona e mi strabilia del suo lavoro, Norman appartiene alla rara stirpe dei traduttori in grado di sostenere la temibile prova “testo a fronte”.
È questo che chiamo miracolo di specularità, e basta aver tradotto qualche riga del più traducibile dei testi per sapere quanto sia implacabile e spesso avvilente per un traduttore vedere le proprie frasi tentare di riflettersi nella loro origine testuale. Non quelle di Norman, tuttavia, che rintracciano nell’aderenza assoluta una grazia che risulta ovviamente possibile solo dopo che lui l’ha trovata per noi, per la nostra felicità di lettori di traduzioni.
Mariolina Bertini
La suprema eleganza di Norman
Dal 1995 al 2002 Norman Gobetti, come redattore interno, è stato una delle colonne della rivista «L’Indice dei libri del mese». È lì che l’ho conosciuto – io che per «L’Indice» mi occupo da tempo delle recensioni di letteratura francese – e che ho imparato ad apprezzare la sua propensione ad affrontare ogni oggetto di studio in modo esaustivo, con un misto di instancabile, divertita curiosità e di testarda acribia che appartiene soltanto a lui, che è un suo tratto distintivo peculiare, come le impronte digitali o il registro della voce.
Credo che gli anni trascorsi all’«Indice» siano stati una tappa importante nella formazione di Norman. L’alluvione quotidiana di volumi d’ogni sorta e di ogni argomento che investiva la sua scrivania lo sollecitava in mille direzioni diverse; dietro quella scrivania, giorno dopo giorno, il giovane laureato in Cinema che sin dall’inizio aveva nutrito interessi anche letterari, doveva mettersi alla prova redigendo bibliografie, esplorando autori sconosciuti, ricostruendone la fortuna, sintetizzando ed esponendo con chiarezza i risultati di imponenti dibattiti storico-critici.
Il compito del redattore – che all’«Indice», forse più che altrove, implica grande libertà d’iniziativa ma anche un pesantissimo dispendio di energia – non lasciava a Norman molto tempo per recensire personalmente i libri che lo appassionavano. Eppure qualcuna delle sue recensioni mi è rimasta distintamente nella memoria. Ricordo un suo excursus sul mito di Frankenstein nella letteratura e nel cinema, che cominciava con una serie di riflessioni illuminanti sulla rappresentazione letteraria della biologia e più in generale della scienza; ricordo un vero e proprio saggio sulle trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Thomas Hardy, che contrapponeva ai registi più sensibili al modernismo dello scrittore quelli che invece ne apprezzavano piuttosto gli aspetti arcaici; ricordo pagine di eccezionale perspicacia sui testi di Pasolini per il cinema o sul rapporto tra letteratura e cinema in Rohmer. La scrittura era sempre nitida, essenziale e precisa la più lontana che si possa immaginare da ogni esibizionismo retorico, da ogni abbellimento non necessario. Riguardo a questo, vorrei dire una cosa, che è forse quella più importante che ho da dire. Paola Agosti, dandomi la parola dopo l’intervento di Ada Vigliani, che ha presentato il Norman traduttore, ha annunciato che io avrei parlato di “un altro Norman”, del Norman dell’ «Indice». Ma il Norman dell’«Indice» non era «un altro Norman» rispetto a quello delle traduzioni. Il Norman traduttore eccelle nel rispettare il testo con il quale si confronta, nel mettere tra parentesi la propria soggettività, nel sacrificarla allo stile dell’autore che sta traducendo; proprio allo stesso modo, il Norman recensore evitava ogni intrusione indebita del suo io nella descrizione delle opere recensite e si asteneva rigorosamente da tutte quelle digressioni di cui i recensori un po’ narcisi approfittano con voluttà per esibire la loro erudizione o la loro facondia. Il Norman che oggi traduce è, forse, soltanto un poco più consapevole, rispetto al Norman dell’altro secolo, di questa sua salutare diffidenza giansenista nei confronti dell’Io. Mi pare che emerga, questa consapevolezza, dalle belle pagine di quel “taccuino di lavoro” di Norman intitolato Falso amico che Federico Novaro ha pubblicato a puntate sul suo blog. Scriveva Norman in Falso amico il 16 aprile 2010:
<blockquote>In linea di principio, io a questo punto della mia carriera penso che il mio compito sia riprodurre nel modo più fedele (cioè pedestre?) possibile quel che ha scritto l’autore, anche negli aspetti che a me o a qualcun altro possono apparire più deboli. […] Così che chi legge possa capire nel modo più completo quel che c’era nell’originale, e farsi una sua idea. Penso che il mio compito sia farmi notare il meno possibile.</blockquote>
«Farsi notare il meno possibile»: su questa parola d’ordine credo che sarebbe stata d’accordo anche la grande traduttrice nel cui nome oggi siamo qui riuniti, Nini Agosti Castellani. C’è un tratto di suprema eleganza in questa discrezione, in questa capacità di scomparire dei grandi traduttori. I quali alla fine, però, finché c’è qualcuno in grado di apprezzare il loro lavoro, che si chiamino Nini Agosti o Norman Gobetti, Susanna Basso o Ada Vigliani, finiscono, per fortuna, con il non passare affatto inosservati.
Norman Gobetti
Grazie
Ringrazio innanzitutto Aldo e Paola Agosti e la giuria per avermi scelto per questo riconoscimento. Vorrei poi ringraziare Anna Nadotti, la persona che tanti anni fa mi ha proposto di cominciare a fare questo mestiere, mi ha fatto provare a tradurre, ha fatto il mio nome ad alcune case editrici e ha rivisto le mie prime traduzioni. E poi, qualche anno fa, ha avuto la generosità di chiedermi di affiancarla nel lavoro sui più recenti libri di Amitav Ghosh: Mare di papaveri e Il fiume dell’oppio.
In un’occasione come questa mi sembra anche doveroso ricordare come dietro ogni traduzione non ci sia solo un traduttore, ma anche (e ci si pensa molto di rado, visto che il suo nome non compare da nessuna parte) un revisore e/o un editor. Io ho lavorato con molti revisori e editor bravi, ma soprattutto ho avuto la grande fortuna di lavorare con una editor speciale, la redattrice Einaudi Grazia Giua, che nonostante l’enorme mole di lavoro che, come tutti i redattori, si trova ogni giorno ad affrontare, ha sempre dimostrato, nel rivedere le mie traduzioni, un’attenzione, una sensibilità e un’accuratezza davvero straordinarie.
Ringrazio poi le tante persone che in questi anni mi sono state guide e compagne di viaggio, offrendomi nuove opportunità e insegnandomi molto: i redattori e i direttori dell’«Indice dei libri», nella cui redazione ho lavorato per diversi anni; Federico Novaro, che ha ospitato nel suo blog la mia rubrica Falso amico; Biancamaria Rizzardi e Vittoria Tchernichova, che mi hanno proposto di insegnare al Master di Traduzione postcoloniale dell’Università di Pisa; Paola Mazzarelli, che mi ha invitato a insegnare alla Scuola di specializzazione per traduttori editoriali dell’Agenzia formativa TuttoEuropa di Torino; infine lo staff della Fondazione Einaudi, nella cui accogliente e silenziosa biblioteca ho trovato il luogo ideale in cui trascorrere le ore che quotidianamente dedico al mio mestiere.