Dare atto ai Dialoghi. Prove d’orchestra

Di seguito pubblichiamo la replica di Tiziana Migliore e Paolo Fabbri alla recensione di Aurelia Martelli del libro da loro curato, “The Architecture of Babel” (Olschki 2011).

L’etimologia è una figura retorica: estrae dal lessico sintomi di significazione. Così recensione deriva da census e ha la stessa radice di “censimento”, il cènsere: “novero pubblico di una rendita”. Implica un addentrarsi nella materia tanto da poterla sviscerare. Più del censore, chi “re-censisce” prende in carico la parola altrui e la passa al setaccio, raffrontandola con istanziazioni analoghe per un computo critico, a fin di bene comune. Ma in un’epoca in cui vale quante volte si viene tweettati, cioè informare su se stessi e non formare, la tecnica della recensione soffre di imperizia, come i metodi di stima del reddito divengono redditest. Notizie rumorose, che sgravano dall’impegno alla disamina.

Qualche settimana fa è apparso su Tradurre un commento a The Architectures of Babel (a cura di Tiziana Migliore e Paolo Fabbri, Olschki 2011). Il volume racconta l’edizione 2005 dei Dialoghi di San Giorgio, iniziativa annuale della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. L’autrice del commento, Aurelia Martelli, osserva che gli Atti escono a sei anni dall’incontro. Un dato rilevante solo per chi intende la cultura come cronaca da consumare. Non necessariamente la maturità di una riflessione va a ritmo di Internet. La formula dei Dialoghi vuole che specialisti di varie discipline, appartenenti a tradizioni culturali diverse, si soffermino su un tema – Le atmosfere della libertà (2004); Martìri (2006); Ereditare il passato (2007); Visioni del mondo (2012)… – senza la pretesa di ridurlo a una dottrina e costruendo invece puzzle di competenze, in loco e in itinere. Prima dell’incontro circolano contributi suggeriti dai relatori, i quali, però, «si espongono al rischio di non sapere che cosa accadrà». La ricerca si compie nella conversazione; Pasquale Gagliardi, segretario generale della Cini, la paragona a un esperimento alchemico, dove ogni ingrediente scatena reazioni impreviste (p. IX). Un’“avventura semiologica” (Jurij Lotman), motivata dall’assunto che, su problemi di ampio respiro, non funziona l’intervento del singolo esperto o di gruppi monodisciplinari. Il Dialogo in tre giornate è un veicolo di approfondimento proprio perché si parte da presupposti e categorie distanti. Costringe a chiarire le idee.

In Architetture di Babele linguisti (Harald Haarmann, Nicholas Ostler, Paolo Ramat, Suzanne Romaine), semiologi (Paolo Fabbri), antropologi (Alessandro Duranti, Elinor Ochs), filosofi (Michel Serres), scienziati (Jean-Marc Lévy-Leblond) e poeti (Abdelwahab Meddeb) tentavano uno stato dell’arte rispetto alle creazioni, le estinzioni e le intercessioni dei linguaggi nel mondo. A turno ciascuno dei convenuti relazionava sul tema. Seguiva un dibattito a più voci che ribadiva, contestava o integrava punti dell’esposizione. Gli Atti, purtroppo privi dei pezzi di Duranti e Ochs, di cui però si sente il calco, tracciano la dinamica polifonica, con dialoghi inframmezzati a saggi individuali e che occupano all’incirca metà del volume. È il piatto forte di questa serie della Cini documentare gli scambi di vedute, restituendo il senso di studi condotti insieme. Perciò sorge il dubbio che Martelli abbia avuto fra le mani lo stesso libro quando lamenta una «mancanza di coordinazione» nel lavoro e pensa di trovarsi davanti a un «aggregato di discipline, che in realtà non viene a capo di nulla». Forse non coglie il montaggio fra contributi personali e dibattiti, marcato tuttavia nel testo da separatori e titoli: da pagina 7 a pagina 15, da pagina 24 a pagina 32, da pagina 43 a pagina 53, da pagina 71 a pagina 77, da pagina 87 a pagina 96, da pagina 110 a pagina 117, da pagina 125 a pagina 131. Questa distinzione, evidente se non ci si limita a sfogliare l’antologia, è all’origine del doppio uso del francese e dell’inglese, che Martelli attribuisce agli interventi di Fabbri, quasi fosse un gesto gratuito. L’obiettivo non è certo inscenare, con una mise en abîme, la confusione babelica! Semplicemente, per la stesura degli articoli, gli studiosi sono liberi di scegliere una delle due lingue, mentre i dialoghi ne consentono l’avvicendarsi. Fabbri ha preferito il francese per il suo contributo e, come Haarmann, Ostler e Ramat, interviene nel dibattito sia in francese sia in inglese. Meddeb e Lévy-Leblond parlano solo il francese, Romaine l’inglese. Una lettura disattenta porta Martelli a chiedersi che significato abbia in Haarmann la nozione di “complessità grammaticale” (p. 18); eppure Haarmann, un rigo sopra, lo specifica, per sostenere la teoria dell’impiego diffuso di pratiche simboliche presso i primitivi: «a rendere complesso un linguaggio non è il fatto che viviamo nell’era dell’informazione e riteniamo che la nostra lingua sia di lungo corso, ma sono le sfide dell’habitat a cui linguaggi e popoli devono far fronte» (ibidem, traduzioni nostre). Michel Serres è accantonato, causa dichiarata incompetenza di Martelli. L’ipotesi di una comunicabilità fondata sull’epistemologia dell’udito non suscita sforzi di comprensione. Basta ammettere il rammarico per scansare la fatica di applicarsi. Nel libro il filosofo indaga il ruolo della dimensione ritmica, soprasegmentale delle lingue: c’è una musica in comune, nel ceppo neolatino, che permette a un italiano o a uno spagnolo di intuire il senso di un discorso pronunciato in francese. Tedesco e inglese adottano altre partiture.

Si potrebbe obiettare che quanto detto finora non salva gli Atti dall’accusa di una fallita orchestrazione dei punti di vista. Per smentire la sentenza di Martelli – «otto (illustrissimi) studiosi si riuniscono e dicono ognuno la sua su un argomento (per altro vastissimo)» – è opportuno, dunque, menzionare alcuni passi dei dialoghi, rivelativi dei modi di costruzione di un pensiero collettivo. Suzanne Romaine accosta al mito di Babele, percepito da Fabbri come risorsa di intelligibilità, l’episodio della Pentecoste, il dono carismatico delle lingue. Impossibile tener conto delle differenze linguistiche se non si esplorano, parallelamente, i processi di conservazione e trasformazione della biodiversità (p. 15). All’interrogativo di Meddeb sulle garanzie di sopravvivenza delle lingue, Haarmann risponde sottolineando il peso della trasmissione intergenerazionale: l’antidoto migliore contro la scomparsa (p. 26). Qui Fabbri invita a non confondere l’estinzione con la morte: il volgare, per Dante, è un sole nuovo che oscura il latino, tramontato. Ma, inaspettatamente, il latino rivedrà l’alba nel Rinascimento (p. 24). Preservare a tutti i costi è un danno anche per Lévy-Leblond, avverso alla museificazione e “turistificazione” delle lingue. Il fisico opta per idiomi che co-evolvano con l’umanità (p. 29). Riguardo all’ideale di una “lingua franca”, Ostler condivide con Haarmann l’apprezzamento per un libro, World Englishes (2003), di Jennifer Jenkins, che mostra quante varietà di inglese si parlano nel mondo, in Australia per esempio. Sono così lontane dagli standard dell’inglese britannico o americano da non sembrare più la stessa lingua (p. 28). L’inglese, in virtù delle nuove tecnologie, appare intramontabile (Ramat, p. 46), ma il suo potere si ridimensiona pensando che un ruolo analogo ha avuto il latino, lungo un secolo, in età gutenberghiana (Haarmann, p. 48). Più avanti Haarmann e Fabbri riconoscono a Ostler il merito di aver definito l’impatto della migrazione sul propagarsi di lingue e valori. Haarmann prende spunto dal discorso del collega e considera i “gradienti di immigrazione” nel pidgin e nel creolo, cioè nei fenomeni di assimilazione delle lingue (pp. 43-45). Sull’intervento di Romaine, che mette a fuoco il difficile equilibrio di forze fra lingue nazionali e minoranze, tornano Ramat, per ricordare il sistema altamente ufficializzato e simbolico del sardo – statuti, bandiere, inni (p. 71), Haarmann, che dai babilonesi ai georgiani lega l’endorsement delle culture a ragioni politiche (p. 74) e Fabbri, propenso a un’“ecologia delle pratiche semiotiche”. Lo incuriosisce il manifestarsi di idiomi minoritari, con i loro tratti prosodici e retorici, negli usi discorsivi di altre lingue. Molte minoranze si ripresentano, non svaniscono (p. 89). Infine il contributo di Meddeb sull’apprendimento dell’arabo suscita l’interesse di Romaine, perché interpreta l’acquisizione di una lingua come conoscenza incorporata, appropriazione attraverso la voce, la calligrafia, la mimica (p. 126).

L’attenzione reciproca è alta, le questioni trattate feconde. In particolare i Dialoghi insegnano che una “lingua franca” non consiste, con buona pace di Martelli, nell’armonizzazione degli obiettivi o nella scoperta di uno specifico “linguaggio interdisciplinare” (misterioso), ma nel sapersi situare, consensuali, su un territorio di emergenze (Fabbri, p. 130). Una fatica che non è da tutti.

Tiziana Migliore e Paolo Fabbri