Antonio Prete
All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione
Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp.138
di Alessio Piras
La traduzione poetica è esercizio linguistico tra i più arditi. Nel senso della sua innegabile difficoltà, perché essa è probabilmente l’ideale paradigma di quell’impossibilità e imperfezione della traduzione, dimostrazione della sua natura di processo in divenire. L’ultimo libro di Antonio Prete, All’ombra della lingua, traccia, partendo dalla propria esperienza di traduttore, un percorso teorico sulla traduzione senza pretese di indottrinamento, ma con la volontà di condividere riflessioni, appunti ed emozioni, instaurando un dialogo alla pari con il lettore. Il testo risulta denso, ma scorrevole, e va delineando non tanto una teoria della traduzione quanto una sua poetica.
Il primo capitolo (pp. 14-59) sottolinea alcuni aspetti fondamentali della traduzione poetica (ma validi anche in altri ambiti) procedendo per figure. La prima è quella dell’ospitalità: la lingua del traduttore accoglie quella del poeta e con essa dialoga instaurando una relazione simile all’esperienza d’amore (pp. 14-16). Da questo momento, Prete accoglie nella sua riflessione Leopardi: è lo Zibaldone, infatti, il grande protagonista del testo; da esso l’autore mutua la metafora della “camera oscura”: «la visione della prima lingua, della lingua da cui si traduce, muove dall’universo linguistico di colui che traduce: è questo il recinto, la “camera oscura”, in cui la prima lingua appare» (p. 18). Leopardi suggerisce a Prete anche la figura dell’ascolto e quella dell’imitazione, fondamentale per definire come la traduzione implichi un processo di mimesis poetica; per questo il traduttore di poesia è a sua volta poeta, perché della sua lingua deve saper maneggiare la musicalità, il ritmo, la metrica e il lessico (p. 26). La traduzione, quindi, implica un esercizio (p. 47) dalla natura doppia: sulla propria lingua e sulla lingua del testo originale, instaurando una relazione del traduttore con la propria scrittura. Questo introduce un principio importante, sia per la traduzione, che per la vita: l’esperienza dell’altro che aiuta a indagare la propria interiorità. Ciò viene sottolineato da Prete nel bel paragrafo Stare tra le lingue, interamente dedicato a quello che è il ruolo politico della traduzione: «l’ospitalità verso chi emigra, il riconoscimento dei suoi diritti […] riguarda anche la sua lingua» (p. 52), perché la lingua è connotazione forte di identità, di memoria, di appartenenza. La riflessione sulla teoria della traduzione, che avvia alla conclusione del capitolo, non stupisce il lettore o lo studente abituato a frequentare le lezioni di Antonio Prete. Il discorso teorico non può che partire dalla pratica della traduzione e a dimostrarlo basterebbe la frase di Leopardi: «del modo di ben tradurre ne parla più a lungo chi traduce men bene». Inutile, quindi, perdersi in un’astratta teoresi, la traduzione è anzitutto pratica di un dialogo tra le lingue che trova negli appunti del traduttore il suo apparato teorico fondamentale.
Appunti e note sembrano essere il materiale che compone la terza parte del testo (pp. 77-89), dove Prete ci apre le porte del suo laboratorio mettendoci a disposizione il dialogo che ebbe, come lettore, con il Benjamin del Die Aufgabe des Übersetzers (Il compito del traduttore). Il concetto del dialogo, affrontato qui da un punto di vista più tecnico, vede la traduzione come debitrice nei confronti del testo originale, la sua vita è ad esso collegata e non deve in nessun modo soffocarlo (concetto questo presente anche in Leopardi); il respiro del primo testo continua a vivere nella traduzione, la cui vita «ha origine e alimento nel dialogo con un’altra vita» (p. 80). La traduzione, però, è anche un gioco di trasposizioni e proprio nel trasporre, Prete e Benjamin, trovano la più intima correlazione del tradurre con la poesia: come il poeta traspone la natura nella propria lingua, il traduttore vi traspone l’originale. Il rapporto tra i due traduttori riserva spazio anche a considerazioni più tecniche: nella traduzione della poesia si sperimenta in profondità il rapporto di fedeltà con il senso, questione quella della fedeltà affrontata con originalità da Prete, soprattutto nei confronti di una scuola che vorrebbe la traduzione come una materia esatta. Al traduttore, infatti, è lasciato uno spazio creativo, una libertà di azione sulla propria lingua e la propria tradizione poetica; il senso deve scaturire come effetto finale, «dopo che all’abolizione del sistema di significanti che caratterizzavano l’originale è seguito di volta in volta il restauro di un nuovo sistema, un sistema in cui l’asse del rapporto con il suono, il timbro, con la voce, con le immagini è stato del tutto ricomposto su un altro piano, e in un’altra lingua» (p. 88). Tuttavia, la libertà del traduttore non deve nascondere l’originale, ma lasciargli lo spazio necessario affinché, appunto, scaturisca il senso. Sono i termini dell’esperienza amorosa di cui Prete parla all’inizio del libro: un dialogo che sia condivisione di spazi, senza che una delle due anime che compongono la traduzione prevarichi sull’altra. In questi passaggi si evidenzia come la “teoria” pretiana sorga da un’assidua pratica: l’alessandrino francese di Baudelaire nei Fiori del male, ad esempio, trova corrispondenza, nella traduzione di Prete (Feltrinelli, 2003), con l’endecasillabo italiano, senza che il verso baudelairiano perda la sua forza.
Il dialogo con Benjamin è il preludio a una tavola rotonda che mette a confronto Prete con una selezione di poeti traduttori del Novecento italiano: da Ungaretti a Montale, fino a Luzi, Fortini e Giudici, passando per Quasimodo, Solmi, Valeri, Caproni e Sereni. Da questo ultimo lungo capitolo (pp. 90-131) ne emerge confermato il motivo di fondo che ha accompagnato il lettore: la traduzione poetica come dialogo tra la poetica del poeta e quella del traduttore. Questi, traducendo, indaga la sua lingua e la sua poesia, nella forma e nel ritmo. Ognuno dei poeti interrogati da Prete riconosce nella traduzione un esercizio poetico fondamentale e conferma i principi di libertà e creatività che per forza deve avere il poeta nell’atto del tradurre. I partecipanti al dialogo dell’ultimo capitolo potrebbero essere tanti altri e Prete li nomina in rassegna nel paragrafo conclusivo del testo. Ma ciò che dimostra l’esperienza dei traduttori poeti chiamati dall’autore è che la traduzione è, allo stesso tempo esercizio di scrittura, pratica da cui si diparte il discorso teorico su di essa ed esperienza dell’altro, «esperienza di un’ospitalità che è incontro, conoscenza, trasformazione di sé e della lingua» (p.128).