Bruno Osimo
Dizionario affettivo della lingua ebraica
Marcos y Marcos, 2011
di Aurelia Martelli
45 voci (lemmi, direbbe un lessicografo…) attraverso i quali Osimo, traduttore dal russo e dall’inglese, teorico della traduzione, docente di teoria e storia della traduzione, e autore di numerosi saggi e volumi sulla traduzione, ripercorre tappe fondamentali della sua infanzia traducendo e precisando i significati delle parole che hanno segnato la sua crescita. Parole di cui fornisce, come spiega nella curiosa Nota all’uso del Dizionario «esclusivamente il puro significato affettivo» (p.15). Un lessico famigliare, dunque, ma anche un romanzo di formazione dove le lingue hanno un ruolo fondamentale, anche se, come avverte lo stesso autore, «Dire “lingua” è un’astrazione. Le lingue non esistono in senso stretto. Esistono linguaculture, di cui le lingue sono la superficie verbale» (p. 288).
Il risultato è la garbata e spassosa ricostruzione di un universo semantico del tutto singolare, quello di una famiglia “diversamente ebrea” con un papà che prepara squisiti panini “contaminati” con la coppa e una mamma che «non parla né italiano né ebraico […], parla mammese, detto anche tamponico» (p. 41) ossia una lingua che «non descrive la realtà come appare, ma come apparirebbe se non facesse paura. Se non mettesse in imbarazzo. Se non facesse provare dei sentimenti. Più che una lingua, è una difesa. È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un… tamponamento di qualsivoglia componente affettiva di coinvolgimento» (p. 41). Una lingua, dunque che mitiga, attutisce, diminuisce, una lingua che non usa il verbo ‘amare’ perché troppo forte, dove “mi raccomando” significa “è questione di vita o di morte”, e “ti voglio un oceano di bene” si dice “Complimenti!” e dove “vagamente simile” si dice “proprio uguale”, per cui «se si andava a comprare un paio di scarpe, lei diceva che erano proprio uguali a quelle che mi piacevano tanto e che non volevo cambiare» (p. 42).
Osimo diventa traduttore quando, bambino, si trova costretto a “tradurre” dalla stramba lingua materna, e capisce che la traduzione è uno strumento – e un atteggiamento esistenziale – indispensabile per captare, decodificare e interpretare la realtà. Inizia così quel lungo percorso di formazione che lo porta ad acquisire l’arte del compromesso e della negoziazione, e a maturare la capacità di gestire lo scarto, il residuo, la differenza. Pervade l’intero romanzo la stessa concezione “affettiva” delle lingue che ritroviamo nei suoi scritti teorici: quella del linguaggio come elemento fondante nel costituirsi dei rapporti umani.
E con la stessa vena polemica e lo stesso (sano) scetticismo che chi ha letto i suoi saggi sulla traduzione conosce bene, Osimo non manca di sottolineare il carattere di indeterminatezza dell’atto traduttivo, per il quale noi tutti, traduttori e non, ci troviamo a fare i conti con una scomoda verità, e cioè che «il senso è anche indeterminatezza», che «il senso non è fatto di parole, ma di pensieri» e che «non esiste nulla di simile a un “patrimonio di conoscenze condivise”, ma solo un precario, provvisorio, labile, malcerto, vago modo di vedere, in certi momenti a volte irripetibili, le cose in un modo tale che, data la nostra imperfetta, umana capacità di esprimerci) le nostre descrizioni alle volte collimano» (p. 288).
Alla voce “Traduzione”, Osimo ci regala, infine, un autentico ritratto del traduttore: «Il traduttore è esperto nel pensiero altrui e nei modi di esprimerlo. Il traduttore è esperto nel confine tra il proprio modo di vivere e di vedere il mondo (la propria ‘cultura’) e il modo di vivere e di vedere il mondo altrui (i sette miliardi di ‘culture altrui’ più sette miliardi al quadrato di combinazioni possibili). Il traduttore è esperto nella differenza e nella difficoltà di comunicarla. Il traduttore è esperto nelle sfumature di senso. Il traduttore è esperto nell’arte di adattarsi, di adattare. Il traduttore è uno che ha avuto un’infanzia difficile e che per sopravvivere emotivamente si è adattato, ha adattato, si è adattato a adattarsi. E, in casi estremi, compila dizionari affettivi» (p. 293).