Pubblichiamo il testo dell’intervento di Susanna Basso in occasione dell’incontro “Rileggendo Virginia Woolf: La signora Dalloway, nella nuova traduzione di Anna Nadotti (Einaudi)” che si è tenuto giovedì 21 giugno presso Presso la libreria Borgopò, Torino.
Virginia Woolf apre il suo romanzo sussurrandoci una frase all’orecchio:
«Mrs Dalloway said she would buy the flowers herself»
SS SS SHHSSSHH VVVVFFFSSSHHHSSSFF
La sua voce è un fruscio, un dito sulle labbra a richiedere il nostro silenzio: attenzione! ci dice in un respiro di parole, Mrs Dalloway (che è il titolo del romanzo che stiamo per leggere, ma che coincide anche con le prime parole del testo) disse qualcosa, disse che i fiori li avrebbe comprati lei.
Difficile immaginare una frase più semplice e più bella.
Nel suo The Hours del 1998 Michael Cunningham moltiplicherà questo incipit, distribuendolo per variazioni alle tre protagoniste del romanzo: Virginia Woolf, intenta a scriverlo e a soppesarne l’efficacia nella mente, Clarissa Vaugham, cinquantenne al limitare del ventunesimo secolo pronta a gettarsi nell’aria della sua New York e Laura Brown, lettrice anni cinquanta decisa a perdersi nella lettura del testo di Woolf.
Subito dopo questo esordio bisbigliato, Virginia Woolf finge di spiegarci perché la signora Dalloway abbia deciso di comprare personalmente i fiori. E accosta alla prima frase un breve paragrafo nel quale inserisce informazioni che ci confondono a ogni parola un po’ di più. C’è una Lucy che ha molto da fare. Ci sono degli uomini dal nome robusto e teutonico che a quanto pare dovranno sganciare le porte-finestre dai cardini, e c’è la mattina di giugno tersa e promettente di vita. Alla settima riga di testo già siamo stati avvisati che ci aspetta qualcosa di bello e terribile. Questo romanzo è una gioia e un tuffo, è un romanzo al quale qualcuno ha sganciato i cardini e le cui porte nude si affacciano ora sull’aria inebriante di una scrittura nuova.
Il terzo paragrafo rende completo lo smarrimento spazio-temporale e avvia un processo di lenta fascinazione che ci condurrà fino alla sforbiciata di quel «Perché lei era lì» con cui il racconto si chiude.
Credo che tradurre Mrs Dalloway sia stato per Anna quella gioia e quel tuffo al tempo stesso. Credo che arrivare a pagina due sia stato un record di apnea, seguito da un respiro lungo e incredulo.
Se l’autrice che si traduce scardina la forma del romanzo, se insegue pennacchi di fumo e scie di condensazione che scrivono sul cielo il nome di una caramella, se sa entrare nella mente di uomini e donne diversi come Clarissa Dalloway, Peter Walsh, Lucrezia e Septimus Warren Smith, se riferisce di ogni brusio e di ogni schianto senza sancire gerarchie sonore, se ha un senso del ritmo infallibile e la capacità di commuoverci mentre descrive un cappello e, soprattutto, di andare a quel vuoto che sta al cuore della vita senza mai chiudere gli occhi della mente, allora il traduttore è in un mare di guai, perché sta traducendo Virginia Woolf.
Anna Nadotti ha compiuto in questo suo lavoro un autentico miracolo di “avvicinanza felice”. Provo a spiegarmi. Tradurre è, banalmente un andirivieni, un movimento di parole che, da scritte, si sospendono nel silenzio del pensiero per tornare alla forma scritta della traduzione. È in quella che Giacomo Leopardi chiamava la “sospensione silenziosa del testo” che si gioca la qualità di una traduzione. Quando si traduce un testo tradotto, e tradotto spesso più di una volta, è evidente che si ha a che fare con un gioiello del canone. Le voci che si accalcano nella mente di chi traduce si fanno quindi plurali; non sono soltanto quella dell’autore ma anche quelle di chi prima di noi ha già attraversato lo stesso specchio d’acqua. Occorre, a mio giudizio, ascoltarle, riconoscerle, ma poi abbassare il più possibile l’audio e frugare nella propria voce. Per dare inizio al processo che Massimo Cacciari con ineguagliabile chiarezza ha definito avvicinanza. L’avvicinanza è un movimento cauto di ritorno al testo-fonte per progressivi infinitesimali aggiustamenti. L’avvicinanza si conclude quando raggiungiamo la distanza minima possibile in termini di lessico, grammatica, sintassi, punteggiatura, ritmo, stile, sonorità dal testo-fonte. Ogni nuova buona traduzione traccia un percorso inedito di avvicinanza e, quasi certamente, si spinge un soffio più vicino al calor bianco del testo. Alla possibilità di una maggiore avvicinanza concorrono due elementi: il tempo trascorso dall’uscita del testo, misurabile in letture già avvenute, perché i traduttori sono anche filtri di generazioni di lettori del passato, e i chiodi lasciati in parete da critici e traduttori precedenti. A questi va aggiunto il desiderio di mettere a disposizione il proprio talento tutto intero e di assumersi da capo la responsabilità di dire un classico in parole nostre.
L’avvicinanza di questa nuova traduzione di Mrs Dalloway è felice perché a ogni pagina se ne sente la matura sapienza. È un lavoro che arriva da lontano e che, anche per questa ragione, ha potuto spingersi vicinissimo al testo, è una lunga lettera d’amore scritta nella forma insolita con cui lo fanno i traduttori. Vale a dire ripercorrendo parola per parola le parole altrui.