Sul Vanity Blog, il blog dei giornalisti di Vanity Fair, Raffaella Venarucci ha intervistato Matteo Colombo, traduttore di molti autori americani contemporanei, da David Foster Wallace a Jennifer Egan. Siamo contenti di leggere interviste molto divulgative, che raccontino al grande pubblico in cosa consiste concretamente il lavoro di un traduttore.
Sembra un curioso paradosso il fatto che in un Paese esterofilo come il nostro, in cui si legge prevalentemente narrativa straniera, ai traduttori letterari venga concesso pochissimo spazio (il loro nome non compare sulla copertina dei libri, raramente vengono citati nelle recensioni), dimenticando che senza il prezioso lavoro di questi esperti mediatori, capaci di traghettare da una lingua all’altra idee, sentimenti ed emozioni, le nostre letture di narrativa e saggistica si limiterebbero ai confini un po’ angusti della nostra nazione. Ne parliamo con Matteo Colombo, che ha dato voce italiana ad alcuni tra i più grandi scrittori americani contemporanei: Don Delillo, Dave Eggers, David Foster Wallace, Michael Chabon, Chuck Palahniuk, David Sedaris e Jennifer Egan, tra gli altri
Ci racconti il tuo esordio come traduttore?
Ho frequentato la scuola di interpretariato dell’Università di Genova e il primo libro che ho tradotto è stata anche la tesi con la quale mi sono laureato. Avevo scelto da subito l’indirizzo letterario e la tesi consisteva appunto nella traduzione di un inedito. Le nostre insegnanti contattarono le case editrici per sapere se c’erano testi disponibili e l’allora neonata collana Strade Blu di Mondadori aveva per le mani un romanzo di un autore inglese, Philiph Ridley, intitolato Crocodilia. Feci una prova e piacque. Ho avuto fortuna e ho cominciato molto presto, avevo appena 22 anni.
Oggi lavori per un editore in particolare?
Sono sempre stato freelance, come tutti i traduttori letterari, non ne troverai mai uno in forza a un unico editore. Siamo tutti liberi professionisti e ogni libro che traduciamo equivale a uno specifico contratto.
Quali qualità richiede questo lavoro?
La passione per la mediazione, soprattutto. Nel senso che il traduttore sta in mezzo, tra due culture, due lingue, e per tradurre bene bisogna provare piacere nel trasportare i significati da uno spazio all’altro, è una cosa fondamentale. Ci deve essere inoltre un piacere simile a quello che si ricava dall’enigmistica, ovvero la passione di far tornare le cose con il minor numero di perdite possibile, perché la traduzione è sempre una partita persa, però tanto migliore quanto minori sono le perdite.
Quindi c’è sempre un margine di tradimento dell’originale?
Sì, la fedeltà assoluta non è possibile e non sarebbe neanche interessante, perché comunque il passaggio a un’altra lingua implica un passaggio a un’altra cultura e a un altro sistema di riferimento, per cui la letteralità ucciderebbe il testo. Ci sono scrittori estremamente complessi eppure facili da trasporre in italiano, e altri apparentemente molto semplici e che invece comportano molte perdite nel momento in cui vengono tradotti. Non c’è una regola e si perde sempre qualcosa: può essere molto poco, o può essere anche abbastanza.
Eviti il più possibile di ricorrere alle note a piè di pagina?
Sì, questa è la regola generale adottata più o meno da tutti: la nota è la bestia nera di chiunque lavori nell’editoria, a meno che non sia utilizzata con fini espressivi, come può succedere con David Foster Wallace, ad esempio, per il quale diventa parte integrante del modo di raccontare. Altrimenti è considerata un intoppo alla scorrevolezza del testo e quindi una distrazione. Se posso, tento di evitarla quasi sempre.
È difficile calarsi in tante voci e tanti stili diversi?
È sempre molto difficile all’inizio, chiunque faccia il mio mestiere ti confermerà che si possono avere decine di libri tradotti nel curriculum ma l’avvicinamento a un testo ogni volta è complicato, indipendentemente dalla difficoltà dello scrittore. Bisogna entrare in una specie di sintonia con l’autore: può capitare molto presto, e lì a velocizzare il tutto intervengono l’esperienza e la professionalità, oppure ci si può mettere molto di più, a volte possono trascorrere anche 70-80 pagine di traduzione molto frustrante prima di sentire quel click, però quando accade è ciò che dà il senso al lavoro, e diventa una cosa quasi magica, perché da un certo punto in poi è come se la traduzione si facesse da sola. A volte traduco anche più velocemente di quanto non scriverei, però, per arrivare a quel punto lì, ci vuole un po’ di fatica.
Contatti l’autore, quando è possibile?
Se possibile sì, ma non sempre lo è, dipende dalla disponibilità dell’autore che a sua volta dipende dalla sua fama. Mi è capitato ad esempio di tradurre scrittori, come Don Delillo, il cui nuovo libro veniva pubblicato in contemporanea in tutto il mondo, e che mai avrebbero potuto rendersi disponibili alle domande di 25 traduttori nello stesso momento; in quei casi c’era però una persona predisposta a farlo. Mi è anche capitato, con altri autori importanti, di collaborare regolarmente, di scriverci e chattare per esporre i miei dubbi: quando succede è molto bello.
Il più bel libro che hai tradotto è ancora Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, come ho letto in una tua recensione?
Al momento sono alle prese con un romanzo che sto amando moltissimo, ma la Egan detiene ancora il primo posto in classifica, sì. Il mio innamoramento per quel libro precede il lavoro che ho poi fatto sul testo. Secondo me è un grande libro, molto importante, il cui valore verrà percepito sempre di più con il passare del tempo, solo tra qualche anno si capirà quanto è stato innovativo nella ridefinizione di che cosa può fare il romanzo in questo secolo.
Tradurre Black Box, romanzo in forma di tweet, è stata una sfida?
È stato piuttosto difficile rispettare il vincolo delle 140 battute. Considera che mediamente nel passaggio dall’inglese all’italiano i testi si allungano, proprio per ragioni connaturate alla lingua, anche di un 5, 10 per cento. Quindi per scrivere rimanendo nei 140 caratteri ho fatto i salti mortali, ma secondo me ci siamo riusciti anche molto bene. Martina Testa, che in genere rivede tutte le mie traduzioni per Minimum Fax, si era fatta addirittura fare un software apposito per contare le battute dei tweet. È stato un esercizio in sé difficile ma molto divertente, e secondo me è un grande racconto. Era molto facile farlo diventare pretestuoso, l’idea stessa di usare un social network, e la forma di raccontare del momento, il tweet, poteva in altre mani diventare una sciocchezza, invece la Egan l’ha gestita molto bene.
Un traduttore è un coautore, secondo te?
Potrei risponderti di sì, di fatto sono un coautore, perché comunque il lettore italiano legge quello che ho scritto io. Però è molto evidente che lo sforzo della creazione di un mondo e dei personaggi non mi appartiene. Sono un collaboratore creativo, perché sicuramente il mio mestiere richiede una dose massiccia di creatività. Penso che chi traduce un libro in un’altra lingua dovrebbe essere trattato giuridicamente in maniera analoga a un autore, anche se non nelle stesse proporzioni, ovviamente. Adesso invece in Italia noi traduttori cediamo i diritti di sfruttamento delle nostre traduzioni per 20 anni, il che è una follia. È un trattamento abbastanza punitivo, e anche un caso isolato in Europa.
Quindi se anche un libro diventa un best seller per voi traduttori non cambia nulla?
Se un libro ha un grande successo da un punto di vista economico per noi non cambia nulla, perché non percepiamo i diritti d’autore, cosa che invece riterrei giusta. È un argomento di cui si fatica a parlare con gli editori, perché hanno tutti paura di creare un precedente, tra l’altro l’editoria italiana di suo ha già un mercato molto ridotto, e in questo momento di violentissima crisi certi discorsi attecchiscono anche meno del solito. Difatti ora esiste un sindacato dei traduttori letterari che si chiama Strade, che sta cercando di organizzare tutti noi lavoratori editoriali che viviamo un po’ isolati, per portare avanti rivendicazioni di questo tipo.
C’è oggi un po’ di visibilità in più, per i traduttori, rispetto al passato?
Un minimo sì, ma solo per il fatto che da una decina d’anni sono cominciate a nascere delle piccole realtà, come appunto Strade, e ancora prima forme di proto-associazionismo su Internet, mailing list e gruppi di discussione in cui parlavamo della nostra situazione lavorativa, cosa che negli anni ha creato una maggiore consapevolezza. Sono state fatte delle campagne in cui scrivevamo a tutti i giornali che recensivano libri di citare i traduttori. Il nome del traduttore dovrebbe stare in copertina, come accade in Francia.
Hai bisogno di un continuo aggiornamento per il tuo lavoro?
È un mestiere basato sulla lingua e quindi in continua trasformazione, perché la lingua cambia, muore e si rigenera ogni giorno. L’aggiornamento del traduttore consiste nell’essere sempre al passo con la propria lingua e con quella da cui si traduce, è fondamentale e gli strumenti ci sono, dall’ascoltare le persone sui mezzi pubblici alla televisione, dal leggere molto e informarsi ai social network, che sono dei laboratori linguistici in cui tutti scrivono e dove c’è anche un termometro abbastanza preciso di che cosa sta accadendo in una lingua.
Nuovi progetti in corso?
Sto lavorando a un bel libro di un autore americano, Kevin Powers. Il titolo originale è The Yellow Birds e uscirà per Einaudi Stile Libero.
(Raffaella Venarucci)