Oggi, 23 ottobre, cade l’anniversario della rivoluzione ungherese del 1956. Ospitiamo eccezionalmente una Quinta di copertina con contributi fotografici.
Gli stivali di Stalin
di Claudia Tatasciore, autrice di Noémi Szécsi, Il Montecristo comunista, Sesto San Giovanni, Mimesis Edizioni, 2017 (da Noémi Szécsi, Kommunista Monte Cristo, Budapest, Europa Kiadó, 2014; prima edizione: Budapest, Tericum Kiadó, 2006).
«Chi è che ha atteso con più ansia San Nicola nel ’56? Il compagno Stalin. Ha messo fuori gli stivali già a ottobre». Con questa barzelletta budapestina si apre uno dei capitoli del romanzo di Noémi Szécsi Il Montecristo comunista: la mia prima traduzione letteraria – integrale – dall’ungherese, una bella sfida con cui iniziare. L’immagine evocata dalla barzelletta è quella che si può vedere qui sotto, simbolo della rivoluzione del ’56: la statua di Stalin abbattuta dagli ungheresi. I resti di un monumento diventano narrazione collettiva.
Il Montecristo comunista, secondo romanzo dell’autrice, attraverso le vicende del protagonista Sanyi ripercorre la storia dell’Ungheria dal 1919 al 1957, con gusto tragicomico. Il lavoro di traduzione è stato accompagnato da diversi momenti preparatori. Dalla documentazione storica per uguagliare le ricerche d’archivio svolte dall’autrice, all’integrazione della cronologia e del glossario inseriti in appendice al romanzo originale: quali informazioni sarebbero state utili al lettore italiano per seguire le vicende e comprendere certi riferimenti, senza appesantire un libro già corposo (494 pagine nell’edizione italiana) e senza puntellare di note il ritmo di una prosa satireggiante? E poi: la rilettura del Conte di Montecristo, a caccia dei motivi (tracce linguistiche) importati nel romanzo ungherese, i tuffi nelle memorie dell’ufficiale Guido Romanelli o del cardinale Mindszenty, per assorbire il linguaggio dell’epoca. Infine la consultazione di manuali di storia ungherese in ungherese e in italiano, per cercare – laddove vi fosse! – la terminologia correntemente in uso tra gli addetti ai lavori. Questo, in poche righe, il “pacchetto Montecristo” che mi sono costruita per affrontare il gioco satirico messo in atto da Szécsi.
In questo gioco, le immagini visive la fanno da padrone e sono state spesso decisive per trovare il tono giusto, le formulazioni più efficaci. Per accompagnare il lettore italiano in quella realtà storica. E anche se le immagini non sono concretamente presenti nel libro, voglio richiamarne qui un paio a titolo di esempio.
C’è un preciso ritratto dietro la descrizione di Mátyás Rákosi che, dopo otto anni e mezzo di carcere, è ormai privo del suo «fascino giovanile» e ha l’aspetto di «un Nosferatu appesantito che si nutriva continuamente del sangue dei suoi compagni di cella […]. Ma le masse, oggi quanto allora, non amano rappresentarsi i rivoluzionari come nani pelati, grassi, senza collo e con le orecchie da pipistrello». Una fotografia scattata nel 1935, dopo il secondo arresto del politico.
Nelle pagine precedenti invece – siamo nel 1919 – un «sorridente Mátyás Rákosi» al mercato di una cittadina austriaca (ovvero in esilio dopo la caduta della Repubblica dei consigli), «ai piedi di una montagna di patate fangose», salutava Sanyi agitando «un grande porro. Nel braccio sinistro teneva ben salda una cesta di vimini stipata di verdure». Nel figurarmi la scena, prima di tradurla, e alla ricerca di riferimenti storici, ecco che si è imposta su tutte una delle immagini più famose della propaganda di Rákosi. Un salto temporale, certo, perché la foto è del 1947. Ma per me è stata la chiave per afferrare il grottesco della scena. Un meccanismo che, nel corso del lavoro, si è ripetuto più volte.
Per tutto il tempo della traduzione ho lavorato nella consapevolezza di trovarmi sul filo del paradosso: rendere fruibile una storia fatta di elementi che, se avessi optato per una traduzione “esplicativa”, avrei privato di efficacia evocativa. Rimanere spesso sul piano dell’implicito ha reso dunque necessario affiancare alla complessità narrativa un’estrema attenzione al ritmo: un’alternanza tra passo incalzante e pause di respiro di tragica profondità. A distanza di più di un anno da questo lavoro, immagini e ritmo sono appunto i nuclei attorno ai quali si condensa il ricordo di questa esperienza di traduzione.