Fuga dalla lingua (del nostro Vecchio Lettore)

Eccezionalmente, un breve intervento del nostro Vecchio Lettore.

 

Fuga dalla lingua

Il Vecchio Lettore

 Ci capita tra le mani un librettino (27 pagine). Un librettino di poesia. Forse. Oggi non si capisce più bene che cosa si può chiamare poesia, che cosa pittura, che cosa musica ecc. Ma è giusto, visto che stiamo transitando per una lunghissima transizione epocale da cui nascerà l’arte. Un’altra. Diversa e oggi imprevedibile. Ma non è di questo che vogliamo parlare. Vogliamo parlare di una di queste “poesie”. Il libretto si chiama Manhattan Experiment, sottotitolo 1997 Fuga da New York (edito da La Camera Verde). Si ispira infatti al famoso film di Carpenter ed è abitato dai suoi personaggi. Si apre con un calco della poesia The Hill (La collina) dalla Spoon River Anthology (la traduzione della quale fu, come è noto, l’esordio di Fernanda Pivano): i personaggi di Fuga da New York dormono: non su una collina, ma a Manhattan. E si chiude con una “traduzione” di questo calco. In che lingua? Non in italiano, ma in un impasto italo-franco-ispano-anglo-napoletano, un impasto molto saporito, che fa voglia di provarne ancora, magari con l’aggiunta di ancora altri ingredienti.

L’autore è uno straordinario personaggio, poeta, teatrante, fondatore e direttore di riviste, insegnante, conduttore radiofonico e altro ancora (a dire il vero, soprattutto showman). Si chiama Francesco Forlani. Inserti con quello stesso impasto linguistico si trovano anche in un suo felice romanzo, Parigi, senza passare dal via, pubblicato da Laterza l’anno scorso. Forlani si fa credere napoletano, ma non è vero: è casertano. Che non faccia differenza possiamo crederlo noi alieni, ma la differenza c’è e, in un certo, è liberatoria: lo libera da una pesante tradizione letteraria, musicale e teatrale. Ora, di questa liberazione fa parte anche questo suo esperimento, che può portarlo molto lontano. Dice che sta scrivendo un romanzo in quella lingua-non-lingua. L’augurio del vecchio lettore è che abbia il coraggio di parlare in profondità di questa transizione interminabile – cosa che nessuno sta avendo il coraggio di fare – facendo diventare quella “lingua”, arricchita del massimo possibile di apporti “globali”, l’idioma stesso della transizione.