Esisteva già la traduttologia italiana nell’Ottocento? Sì!

francesco_soaveAnticipiamo un estratto dal libro di Francesco Laurenti Tradurre: Storie, Teorie, Pratiche dall’Antichità al XIX secolo, di prossima pubblicazione per Armando editore. Già nell’Ottocento esistevano traduttologi italiani, anche se le loro opere sembrano ormai dimenticate. Il capitolo che proponiamo presenta tre autori di piccoli trattati sulla traduzione, Francesco Soave, Dionigi Strocchi e Antonino Carrano.

Dal capitolo Verso la Contemporaneità: l’Ottocento (pp. 244-252).

[…] Nella seconda parte del secolo, per quanto si attenuinino i toni del dibattito tra i promotori delle tendenze romantiche e i classicisti, non diminuisce il fermento speculativo sul tradurre. Tra gli scritti incentrati sulle traduzioni, oltre alle recensioni, agli articoli e alle premesse dei traduttori che restano l’occasione privilegiata per esprimersi in merito alla traduzione, non mancano testi più articolati che prendono la forma di piccoli trattati. Tra questi ultimi considereremo Sull’arte del tradurre di Francesco Soave (1839), Delle traduzioni (1840) di Dionigi Strocchi e lo scritto di Antonino Carrano Della difficoltà e prestanza del tradurre (1862).

L’educatore italo-svizzero Francesco Soave (1743-1806), per un periodo anche maestro di Alessandro Manzoni, traduttore di opere letterarie e filosofiche dal latino, dal greco e dall’inglese oltre che di scritti di stampo didattico dal tedesco pubblica, poco prima della metà del secolo, le Istituzioni di rettorica e belle lettere tratte dalle lezioni di Hugh Blair (1718-1800).

Trattandosi originariamente di un’opera pensata per il lettore inglese, il lavoro che svolge Soave sul testo originario è notevole e consiste, oltre all’aggiunta di numerose note e integrazioni, in un’acuta e originale sostituzione dei numerosissimi esempi tratti dalla letteratura inglese con esempi e citazioni della letteratura italiana. In tal senso sembra che lo scrittore italiano si appropri dell’originale diventandone quasi l’autore, e comunque è difficile distinguere dove finiscano le sue osservazioni e dove queste siano da ricondurre a Blair. Nella seconda edizione dell’opera italiana, pubblicata nel 1839, Soave inserisce il testo Sull’arte del tradurre che risulta interessante non solo per le tesi esposte (che vanno ricondotte sia a Blair che a Soave) ma anche per il fatto che si tratta di una delle prime traduzioni italiane di un’opera teorica sulla traduzione.

Ponendo la tradizione letteraria italiana nella scia della derivazione da quella greca e quella latina, Soave avvia la sua riflessione affermando l’utilità di una riflessione rivolta all’arte del tradurre e si mostra convinto che, attraverso gli esempi, le sue osservazioni «daranno norma ad esaminare le traduzioni altrui e regola nel foggiarne di nuove». Un duplice intento dunque, rivolto sia al lettore di traduzioni che ai traduttori stessi.

Tradurre per Soave significa «trasportare un’opera da una ad un’altra favella con fedeltà, mantenendo i lineamenti, i colori, le movenze, e lo spirito dell’originale». È sufficiente che una di queste qualità venga meno affinché una traduzione non sia più definita tale, soprattutto nel caso in cui a venir meno sia lo spirito dell’autore originario. Al traduttore egli richiede abilità specifiche: «forza d’ingegno […] a penetrare negli artifici d’una scrittura che non è nostra, né parla in nostro dettato; squisitezza di sentire a rilevarne le bellezze a modo che sugli animi facciano impressione tutti i segreti movimenti degli affetti, e l’andamento delle idee conforme a quello delle idee» e proprio per questo i buoni traduttori sarebbero rari e da equiparare, per valore, agli scrittori originali.

Il primo passo richiesto al traduttore consisterebbe nel «recare sé innanzi al suo autore e vedere se egli ha l’anima contemperata egualmente che lui e eguale fantasia». Verificata tale “affinità” al traduttore spetterebbe di appurare di essere in grado di affrontare lo specifico genere di scrittura che egli si appresta a tradurre in quanto, osserva Soave, «molti scrittori vi ha, che ben valgono in un genere, e in un altro no». L’esempio che a questo punto fa Soave per spiegare il concetto appena espresso è proprio, come già aveva fatto Leopardi, la traduzione di Annibal Caro il quale, pur rendendo Virgilio doviziosamente non sarebbe riuscito a rendere la nobiltà peculiare dello scrittore latino. Soave riporta allora alcuni estratti della traduzione di Caro e l’affianca poi con gli stessi versi tradotti dal Tasso, acutamente illustrando i concetti attraverso la comparazione delle due diverse traduzioni. Cita poi alcune osservazioni espresse da Giordani in merito alla traduzione osservando, diremmo a trecentosessanta gradi, quanto egli vuole dimostrare.

Prerogativa della buona traduzione sarebbe l’armonia del dettato ma, per essere fedele all’originale, il traduttore dovrebbe anche «fare intravvedere i difetti stessi dell’autore che egli traduce: perocchè formando questi una speciale qualità dello stile, col toglierli al tutto, si verrebbe ad alterarne il carattere». Soave aggiunge poi al riguardo che, se «bene sta che il lettore intravveda i difetti dell’autore […] starebbe assai male che intravedesse» quelli del traduttore, perché «chi legge una traduzione vuole riconoscere qual è l’autore, e vuole che l’arte del traduttore glielo renda piacevole anche negli stessi difetti». Torna poi sulla ormai “classica” metafora del copista, proponendone un’interpretazione originale:

sarà dunque il traduttore un copista? No certamente. Copista è chi nel ritrarre una cosa, usa la materia stessa che fu usata nell’originale: il traduttore usa diversa materia, e la diversità è tanto grande, quanto è infinitamente svariata l’indole d’una lingua da quella dell’altra. Il pittore copista […] non adopera il suo ingegno; ed altra cura non ha che di scegliere i colori della sua tavolozza e di applicarli al suo modello: il traduttore all’opposto deve per così dire creare egli stesso i suoi colori; il suo ingegno li cerca, li trova, li comparte in un modo confacente, e li applica con sottile accorgimento.

Davanti alle difficoltà apparentemente insormontabili del tradurre Soave suggerisce sempre una soluzione, e non s’arrende mai all’ammissione dell’irriducibilità di una lingua di un’altra. Questo avviene anche nel caso dei proverbi che sono peculiari di una determinata lingua. La soluzione suggerita da Soave è espressa in un modo tale che merita di essere riproposta integralmente.

Che dovrà fare il traduttore per uscire di queste difficoltà con lode? Dovrà internarsi, anzi sprofondarsi nella cognizione d’ambedue le lingue; né questo solo; ma prenderne sì fattamente il più fine e squisito gusto, da vincere ogni impedimento. Egli dovrà, direi quasi, nel tempo stesso farsi contemporaneo di Augusto e di Leone X, per poter a suo luogo spogiar sé della propria sua maniera di sentire, e prendere quella del suo autore, dando alla lingua nativa quell’andamento, quegli atteggiamenti, e que’ sembianti che più s’avvicinano alla lingua originale che si è proposto. A conseguire questo però, non bastano sicuramente i conforti delle regole, ma ci vuole lunghissima pratica, ed indefesso studio.

In pratica si tratterebbe quasi di una magia. La traduzione libera d’altro canto non recherebbe insidie minori in quanto, essendo l’espressione congiunta intimamente al pensiero, non si potrebbe modificarla senza modificare di conseguenza anche il pensiero dell’originale. Anzi, Soave è convinto che «in ogni libertà di traduzione molto ci perde sempre l’autore, poco il traduttore ci acquista». Concludendo la prima parte del saggio, l’educatore si rivolge ai giovani invitandoli a non lasciarsi intimorire dalle riflessioni che egli ha appena esposto ed esortandoli invece a tradurre, anche per imparare le lingue straniere. […].

L’anno seguente alla pubblicazione dell’opera di Soave, il traduttore di opere greche Dionigi Strocchi (1762-1850) pubblica un discorso intitolato Delle traduzioni nel quale, in una prosa magniloquente, esamina la funzione delle traduzioni, attuando una netta distinzione tra le buone traduzioni e quelle mediocri.  Partendo dalla constatazione che la “lodevol arte” del tradurre è talvolta “invilita da prove illaudate”, rispetto ai molti traduttori che si dedicano alla traduzione per mancanza di creatività, Strocchi afferma categoricamente: «chi non sa, né può a meraviglia esprimere i propri concetti non isperi potere a sè sopravvivere ritraendo gli altrui».
Di ben altro respiro è il lavoro di Antonino Carrano Della difficoltà e prestanza del tradurre, opera praticamente dimenticata come il suo autore (del quale rimangono poche notizie), che viene pubblicata nel 1862 a Reggio Calabria. Carrano si propone di fornire delle regole in merito ai doveri (“uficii”) e ai meriti dei traduttori affrontando un’acuta analisi del concetto di fedeltà in traduzione e fornendo dei princìpi ai quali il traduttore dovrebbe attenersi. Carrano crede che una traduzione consista «nel trasportare un’opera da una lingua ad un’altra con fedeltà, vale a dire, nel mantenerla anche nel nuovo suo abito la stessa ch’ella mostrasi in quello in cui vestita fu dall’autore» e riprende dunque la metafora del “vestito”, affermando poi che la traduzione, decisamente, “è scienza ed arte”.

In merito alle abilità del traduttore egli ribadisce la convinzione di molti che per condurre una buona traduzione sia necessaria la conoscenza perfetta delle due lingue con cui si lavora, perché, qualora non sia soddisfatta tale condizione, egli afferma: «l’arte del tradurre si rende ridevolissima commedia; si che oltre al disonorare sé stesso, il traduttore reca infamia alle lettere e alla nazione, e traditore più che traduttore il diresti che svisandone e difformandone l’esemplare immagine del bello originale, viene anzi a tradirla e manometterla nelle più minute sue parti».

Non sarebbe sufficiente conoscere le due lingue solo dal punto di vista grammaticale e lessicale in quanto il traduttore dovrebbe conoscere «perfettamente la natura d’entrambe, la forza e proprietà, in guisa che ne penetri e abbracci l’indole in modo che l’originale si rilevi nella versione». Per riuscire ad usare nel modo giusto la lingua verso cui si traduce bisognerebbe dunque «conoscerne a fondo l’indole e il genio, le più vive e geniali locuzioni, i modi avverbiali e proverbiali» insieme alla storia della sua tradizione letteraria.

Tali prerogative non caratterizzerebbero, secondo Carrano, la maggior parte delle traduzioni allora in circolazione per le quali l’originale sembrerebbe fungere solo da base per un’opera nuova, la cui novità consisterebbe però «in uno slavamento di frasi e concetti» così inaccettabili che sarebbe «più il danno che se ne cava per l’arte che il vantaggio». Al contrario la funzione delle buone traduzioni, anche quelle scientifiche (che richiederebbero in aggiunta una dimestichezza con la scienza trattata), è stimata un “nobilissimo servigio” alla letteratura che le accoglie.

Carrano promuove poi il ricorso al testo a fronte (che indirettamente implicherebbe, in virtù delle potenziali critiche, una migliore qualità della traduzione) e l’uso delle note esplicative per illuminare i punti di più difficile comprensione. Data la “colluvie d’illetterati che scribacchia traduzioni”, della quale Carrano si lamenta, egli suggerisce che un buon traduttore dovrebbe evitare «le voci mucide e vizze, le plebee e rugginose, i barbarismi, i neologismi, gli arcaismi, gl’idiotismi, i riboboli impropri, i solecismi, e scrupoleggi per non afforiestierare il testo, e snaturare le dizioni e guise di dire della favella». Egli suggerisce dunque di evitare i modi che, a sua detta (e non è l’unico a lamentarsi in tal senso), avrebbero caratterizzato tante traduzioni italiane dell’ultima parte del XVIII e dei primi decenni del XIX secolo.