Tratto dalla sua rubrica Quality Street, vi proponiamo questo articolo della francesista Mariolina Bertini. Oltre a interrogarsi sullo stato di salute della storica collana, nel testo si parla della ripubblicazione di un poliziesco francese degli anni Sessanta, Trappola per Cenerentola, di Sébastien Japrisot. Curiosità: dietro allo pseudonimo anagrammatico si cela Jean-Baptiste Rossi, che fu il primo traduttore in francese de Il giovane Holden (L’Attrape-coeurs) nonché l’autore di Una lunga domenica di passioni, da cui nel 2004 Jean-Pierre Jeunet ha tratto un fortunato film con la sua musa Audrey Tautou e Gaspard Ulliel.
Japrisot nei Gialli Mondadori: ottima scelta, pessima traduzione
Di Mariolina Bertini
Esame clinico dei Gialli Mondadori
Sébastien Japrisot, Trappola per Cenerentola, pp. 176, € 4,90, Mondadori 2012
Per quanto io sia profondamente affezionata, come molti della mia generazione, ai Gialli Mondadori, non ho l’impressione che godano di una gran salute. Sarà la concorrenza spietata dei supereconomici, sarà il fascino dei best seller più corposi alla Nesbo, ma ormai nell’edicola che frequento ogni mattina li vedo sempre più spesso stazionare invenduti, sotto le riviste di body building e di medicina alternativa, prima di scomparire definitivamente “per naturale avvicendamento”. La serie dei Classici ha forse un destino meno melanconico; punta in genere su nomi e titoli di sicuro richiamo e di conseguenza può contare sulle nuove generazioni, nelle cui file ci sarà sempre qualcuno che ancora non ha letto Assassinio sull’Orient Express o Il Segno dei quattro. A questo calcolo un po’ pigro sui lettori novizi si sottrae la scelta del numero 1309 dei Classici (ottobre 2012), Trappola per Cenerentola, di Sébastien Japrisot, del 1965; una scelta non ovvia che rimette in circolazione un romanzo di grande fascino, pubblicato da Feltrinelli nel 1967, in questa stessa traduzione, e ormai da tempo irreperibile.
Con lo pseudonimo “Sébastien Japrisot” firmò i suoi tre romanzi polizieschi (tutti tradotti presso Feltrinelli tra il ’64 e il ’67) Jean-Baptiste Rossi (1934-2003), traduttore francese di Salinger, romanziere, regista e sceneggiatore di splendidi noirs come L’uomo venuto dalla pioggia di René Clément e La signora dell’auto con gli occhiali e un fucile di Anatole Litvak. Trappola per Cenerentola è il suo secondo giallo, costantemente ristampato in Francia come un piccolo classico; c’è da sperare che questa riedizione non passi qui da noi completamente inosservata.
La protagonista di Trappola per Cenerentola, Michèle detta Mi, è cresciuta insieme a un’amica d’infanzia, Domenica, soprannominata Do. Hanno in comune una misteriosa madrina, che dopo una giovinezza poco edificante, ma fruttuosa, è diventata la ricchissima proprietaria di un calzaturificio fiorentino. Le due ragazze, crescendo, si sono perse di vista: Mi, rimasta orfana presto, ha vissuto da capricciosa ereditiera tra gli agi dell’alta borghesia, Do, di nascita più modesta, si è impiegata in banca. Si sono poi ritrovate e sono diventate amiche inseparabili. Nelle prime pagine del romanzo, Mi si risveglia in una clinica, con il volto e le mani devastati da terribili bruciature: è sopravvissuta all’incendio della sua villa sulla Costa Azzurra, nel quale è morta Do, ma ha perso la memoria. Passo dopo passo, seguiamo il suo ritorno alla realtà e i suoi sforzi per riappropriarsi di un passato che non riesce a ricordare. L’unico punto fermo sembra l’affetto della governante Jeanne, che veglia maternamente su di lei. Ma in realtà ogni punto fermo è un’illusione: l’indagine di Mi, tra dettagli inspiegabili e indizi inquietanti, si fa sempre più angosciosa, e la ragazza arriva a dubitare perfino della propria identità. Questo dubbio diviene il fulcro del romanzo, finché la ricostruzione retrospettiva delle vicende che hanno preceduto l’incendio sfocia in un superbo finale a sorpresa.
All’uscita del romanzo, portato subito sullo schermo da André Cayatte, il pubblico apprezzò soprattutto l’intreccio incalzante e gli innumerevoli colpi di scena. Quel che affascina invece il lettore d’oggi è l’atmosfera irripetibile di un mondo scomparso: tra le luci soffuse dei ristoranti degli Champs Élysées e la folla del Café de Flore, la protagonista, nei suoi tailleurs pastello oppure in gonna e golfino, a volte con un foulard annodato sotto il mento, ci restituisce l’incanto degli anni sessanta di Audrey Hepburn e di BB. Impossibile non situarla con l’immaginazione nella Parigi di Sempé, quella che ritroviamo nel delizioso album (Un po’ di Parigi) recentemente pubblicato da Donzelli. Come nei romanzi di Françoise Sagan, anche in Trappola per Cenerentola i personaggi maschili sono ridotti al ruolo di comparse: noiosi avvocati, assicuratori pedanti, gigolos perfettamente intercambiabili. Dominano la scena le donne – Mi, Do e Jeanne – ora complici, ora rivali, imprigionate in un gioco complesso di attrazioni reciproche e ambivalenti dipendenze. Sono determinate, sanno bene quello che vogliono: vivere senza lavorare, nei quartieri alti o sulla Costa azzurra, tra armadi traboccanti di vestiti, sontuosi letti a baldacchino e hotel di lusso dove ciondolare in sottoveste, fumando e bevendo caffè nero, dopo notti di follia. La loro eleganza un po’ fredda ricorda le “ragazze da aeroporto” celebrate da Truffaut nella Syrène du Mississipi (La mia droga si chiama Julie); i loro dialoghi, asciutti e taglienti, vanno sempre all’essenziale, senza effusioni sentimentali o tentazioni introspettive.
Le parti dialogate – così brillanti ed efficaci nell’originale – sono proprio quelle che più risentono, nell’edizione italiana, dell’inadeguatezza della traduzione. Una traduzione che, evidentemente, dal lontano 1967, nessuno si è curato di rileggere, di migliorare, di svecchiare un po’. Eppure sarebbe stato facile intervenire almeno là dove la resa letterale di espressioni idiomatiche sfocia nel ridicolo e nell’assurdo; come a p. 88 dove attraper la crève, “ prendersi un accidente”, diventa “prendersi la morte”, o a p. 128, dove un maître chanteur – cioè, nell’argot familiare impiegato da Japrisot, un “ricattatore” – diventa, ahimé, un “maestro cantore”, come se fossimo sul palcoscenico di un’opera wagneriana.