Dal Premio Babel-Laboratorio Formentini 2020: Volare in alto e scendere in picchiata

Riceviamo e pubblichiamo la Quinta di copertina di una delle finaliste del Premio Babel-Laboratorio Formentini 2020, assegnato a un giovane traduttore letterario di lingua italiana meritevole di attenzione.

di Cristina Dozio

autrice di Youssef Fadel, Ogni volta che prendo il volo, Milano, Francesco Brioschi Editore, 2019 (da Ṭāʾir azraq nādir yuḥalliq maʿī طائر أزرق نادر يحلق معي, Beirut, Dar al-Adab, 2013)

Volare in alto e scendere in picchiata

Tradurre dall’arabo significa avere l’opportunità di spaziare tra paesi molto diversi tra loro, seppure legati dalla lingua e da alcuni elementi culturali comuni. In questo caso, è stata una piacevole sfida portare in italiano un romanzo marocchino che mi ha fatto apprezzare nuove sfumature della lingua, compresi i prestiti dal francese e il dialetto locale che avevo meno nell’orecchio rispetto ad altre varietà regionali. Sono venuta a conoscenza di questo libro nel 2014 quando è entrato nella finale del premio IPAF per il miglior romanzo arabo e, leggendolo, sono rimasta rapita dall’odissea di Zina alla ricerca del suo amato ‘Aziz, sparito nel nulla ai tempi della repressione politica degli Anni di Piombo.

In questo viaggio nel cuore del paese, si incontrano numerosi riferimenti culturali a cui bisogna prestare attenzione per creare un immaginario nel lettore. Nell’incipit del romanzo, uno sconosciuto in jellaba invita Zina a raggiungere una casbah dove si tiene un moussem. La jellaba (ǧilbāb) è la tipica veste marocchina e la casbah (qaṣba) è una fortezza ai margini del deserto. Questi due termini evocano un mondo esotico, ma si chiariscono man a mano nel testo e probabilmente cominciano a essere noti al lettore italiano, perciò ho optato per la traslitterazione semplificata. Invece, ho preferito sostituire moussem con un equivalente per chiarire che si tratta della «festa delle rose». Un’altra espressione ricca di sfumature è al-māʾ bi-l-qaṭrān: il semplice calco «acqua con il catrame» fa pensare a un intruglio imbevibile, mentre si tratta di un rimedio naturale dall’aroma intenso che ho reso con «un bel bicchierone d’acqua alla resina di pino».

La sfida più grande che ho affrontato è stata l’alternarsi di sette narratori a cui era importante dare una voce specifica. Un esempio su tutti è Hinda, la cagnolina della casbah. Per rimarcare la prospettiva inusuale di un animale che osserva la realtà ho usato un lessico ricercato e spiritoso. Ho scelto «barrocci» invece dell’opzione più piana «carretti» (al-ʿarabāt al-ṣaġīra) e un semplice cavallo è diventato «un ronzino innocente» (ḥiṣān barīʾ). Quando Hinda afferma di aver ridotto al massimo (ilà abʿad ḥūdud) i suoi rapporti con gli umani, ho potuto anche inserire un gioco di parole: «preferisco ridurre all’osso la nostra frequentazione».

I capitoli narrati dalle guardie della prigione, Baba ‘Ali e Bengasi, contengono dialoghi in dialetto marocchino, la lingua usata nella vita quotidiana che sta entrando anche nella letteratura, solitamente scritta nella varietà standard. Dal punto di vista grafico, Fadel fa una scelta inusuale che ho cercato di riprodurre: la prima battuta si trova nel corpo di testo, ma è riconoscibile per l’uso dell’arabo marocchino, mentre le battute successive vanno a capo senza alcun segno di interpunzione. Questi brevi scambi, il ricorso a espressioni idiomatiche di ambito religioso e le frasi lasciate a metà con i punti di sospensione servono a caratterizzare Baba ‘Ali e Bengasi come personaggi grezzi e poco acculturati.

Questo modo di esprimersi è rimarcato da due intercalari a cui Bengasi ricorre spesso per prendere tempo e per darsi un tono, sia nei dialoghi che nelle parti da lui narrate: kamā yusammūnahu e kamā yaqūlūn. Il primo significa «come lo chiamano» ed è diventato «dammi retta». Il secondo significa «così come dicono» e corrisponde all’espressione idiomatica «come si suol dire». Questo registro è troppo alto per un personaggio come Bengasi, perciò ho optato per «com’è che si dice», scostandomi sul piano del significato per privilegiare un tono più colloquiale.

Infine, una nota sul titolo. L’originale Un raro uccellino blu vola come me evoca il passato da pilota di ‘Aziz e la sua prigionia, durante la quale gli fa compagnia l’uccellino Faraj. Ogni volta che prendo il volo, invece, sposta l’attenzione sulla metafora del volo che ricorre nel romanzo per indicare la passione tra i due protagonisti e la loro voglia di crescere, di puntare in alto.