di Isabella Mattazzi
Come ha osservato lo scrittore martinicano Édouard Glissant, «ascoltare l’altro, gli altri, significa accettare che la verità dell’altrove si opponga alla nostra verità»
Scrivere, dare un giudizio critico su un volume a più voci non è mai un’operazione semplice. Tanto più quando si tratta degli atti di un convegno, ricordo di un evento prevalentemente orale, traccia di passi incrociati, di discorsi interrotti e poi ripresi, di scambi tra identità autoriali magari lontanissime tra loro. Recensire gli atti delle Giornate di Urbino 2010-2011 (in uscita per Voland a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani) potrebbe sembrare quindi, a prima vista, un’operazione naturalmente votata allo scacco o, ancora peggio, condannata a un destino da lista della spesa, barbaro elenco di nomi e case editrici francamente poco significativo.
Innanzitutto perché le Giornate stesse, per il loro carattere di unicità, rappresentano un punto di attrazione e convergenza dell’intero panorama traduttologico italiano (e sono quindi uno specchio composito, per nulla lineare, di un universo frastagliato), e in secondo luogo perché proprio per il loro carattere meticcio, per la loro scelta costante di stare sul confine tra diversi mondi – accademico, editoriale, economico, teorico… – rimandano alla traduzione come a una pratica ibrida, un animale perennemente in movimento, quasi sempre difficile da immobilizzare.
Tradurre, in sintesi, non è (più) solo un semplice atto traspositivo, e non riguarda (ormai) solo il traduttore come figura unica, isolata – vocabolario alla mano, capo chino sul libro – ma è un’attività-magnete intorno a cui far gravitare, con equilibri ogni volta diversi, pratiche discorsive e figure tra loro del tutto differenti. Come leggere quindi il resoconto di due anni di discussioni tra editor, traduttori, teorici della traduzione, direttori editoriali? Cosa riportare di un discorso che ancora prima di aprirsi si sa già essere un gomitolo tra i più intricati, e soprattutto come tirar fuori da questo gomitolo un possibile filo conduttore, un unico discorso che si possa dire il più generale possibile sul modo di fare traduzione oggi?
Per quanto possa essere strano, in realtà, negli atti pubblicati da Voland il filo c’è. E non è neppure troppo nascosto. Appare fin da subito, perfettamente riconoscibile a ogni cambio di voce, ripreso costantemente da una relazione all’altra. Un filo teso nel buio. O meglio, un filo fatto esso stesso di buio.
Se si potesse stilare una graduatoria delle immagini ricorrenti all’interno degli atti, il buio avrebbe sicuramente il primo posto. Penombra, mancanza di chiarezza, foschia (visione impedita del soggetto verso l’esterno), ma anche invisibilità (visione impedita dall’esterno verso il soggetto) sembrano essere i termini con cui il mondo della traduzione si racconta e si rappresenta.
Invisibile per definizione, nascosto dietro la stoffa pesante dell’autore (e non a caso, da anni lo spazio dedicato alla traduzione del Salone del Libro di Torino si chiama, appunto, L’autore invisibile) il traduttore sembra essere perennemente cieco. Non visto, fa fatica a vedere.
Trasparente, si muove in una perenne oscurità. Ma di che oscurità si tratta? O meglio, di quali oscurità al plurale (perché sono più d’una) si parla negli atti delle Giornate di Urbino? Al di là della miopia destinale di Ena Marchi che negli anni della sua giovinezza fa diversi lavori, cambia strada, procede per scarti, muovendosi in una foschia di intenti che soltanto il senno di poi rivelerà salvifica perché involontaria costruzione di quel sapere rizomatico, non-standard che è da sempre strumento indispensabile per ogni buon traduttore; al di là dello sguardo curioso di Alberto Rollo, uno sguardo letterario non unilaterale, non focalizzato, ma forzatamente espanso su uno strabismo a 360 gradi in grado di abbracciare e interrogare l’immensa vastità «del mondo là fuori», la vera partita tra luce e buio sembra però giocarsi sempre e costantemente tra traduttore e pagina, tra la pratica del tradurre e il suo stesso farsi.
Nell’intervento di Franca Cavagnoli, un uomo – il narratore dell’Enigma dell’arrivo di V.S. Naipaul – è colto dal terrore del suo stesso viaggio. Congelato nella sensazione di non arrivare mai da nessuna parte, si muove nel vuoto e nel silenzio, «un silenzio denso come la foschia di un giorno di pioggia che impedisce di vedere con chiarezza dentro di sé». Esattamente come l’uomo di Naipaul, così è il traduttore. In perenne viaggio tra due culture, costantemente immerso nel mare dell’entre-deux, il traduttore deve sopportare per contratto, per la natura stessa del proprio gesto interpretativo, l’ombra improvvisa dello spaesamento. Ogni traduzione implica sempre, inevitabilmente, un perdersi (con la spaventosa sensazione di rimanere incastrati per sempre «sulla soglia», intrappolati in quella zona liminare in cui «non si è più» una lingua, ma «non si è neppure ancora» un’altra), e nello stesso tempo implica un perdere (un lascito necessario, una zona di scarto perché il passaggio da una lingua a un’altra non è mai aderente, i campi semantici non si sovrappongono e le sintassi non si equivalgono mai).
Di fronte alla dissoluzione del paradigma del traduttore onnipotente (onniveggente) e della «traduzione perfetta» (in quanto copia trasparente dell’originale), la riflessione sul tradurre oggi sembra accogliere su di sé l’inevitabilità della rinuncia, la differenza insormontabile tra il proprio e l’altrui. In evidente contrasto con tutta la tradizione epistemologica occidentale che esattamente nel far luce, nella «chiarificazione» del testo (che si tratti di Aufklärung o Lumières poco importa) vede le ragioni della propria esistenza, il gesto del traduttore sembra invece rivendicare per sé l’idea di una libertà estrema di opacizzazione. Un’opacizzazione che non è mai – come sottolinea Antonella Cancellier nel suo intervento – simbolo disforico, sinonimo di sconfitta, quanto piuttosto il riconoscimento di una imperfezione inevitabile, costitutiva dell’essere. «Ogni integrazione deve lasciare un margine a ciò che è irriducibilmente altro e con-dividere i margini di oscurità non penetrata e forse non penetrabile».
Ogni traduzione, in buona sostanza, deve lasciare sempre un margine strutturale alla complessità irriducibile (ovvero non riconducibile a una dimensione trasparente) del mondo. Da qui, il ricordo fatto da Mariagrazia Mazzitelli di Laura Draghi, storica traduttrice Salani e paladina della «intraducibilità intrinseca» di molti testi stranieri. Da qui, non meno importante, la riflessione di Marina Manfredi, all’interno di un’ottica di Postcolonial Translation Studies, sulla traduzione come canale storico di conquista e occupazione imperiale. Perché di fatto tradurre è anche un gesto politico. Non soltanto mezzo efficace di comunicazione, ma anche sistema educativo (e di conseguenza assoggettante), la traduzione – ogni traduzione – implica una presa di posizione, uno stare in equilibrio, bilanciamento sottile sulla rete dei rapporti politici che regolano il mondo degli uomini. Far entrare il buio nel proprio lavoro significa quindi imparare a negoziare la differenza, a riconoscere la sostanziale diversità delle culture che ci stanno di fronte senza affogarle nella luce livellante di un discorso culturale univoco. «Ascoltare l’altro, gli altri – scrive Édouard Glissant – è accettare che la verità dell’altrove si opponga alla nostra verità». Ascoltare l’altro, gli altri, significa, di fatto, accoglierne l’ombra tra le nostre pagine.