Commento su Edith Grossman (parte 2/2)

Ed ecco che ci avviciniamo alla prima smentita: “translating is writing”, dice Edith Grossman. Durante convegni e seminari sulla traduzione si parla spesso di scrittura, ma di solito ci si limita a ripetere che per tradurre bene bisogna “saper scrivere bene” e fin qua non vedo problemi, se non forse quello di stabilire con esattezza che cosa s’intenda con “scrivere bene”. Scrivere in modo corretto? Scrivere in modo elegante? Scrivere con facilità? Un po’ di tutte e tre?

Forse è necessario definire con precisione il concetto dello “scrivere bene” in relazione al mercato editoriale attuale e al successo ottenuto da opere “originali” che spesso non rispettano almeno due dei tre criteri sopracitati. Ciò che davvero m’interessa, però, dell’affermazione di Edith Grossman, e che ci porta alla smentita vera e propria, è il suo proseguimento logico: se tradurre è scrivere allora va da sé che il traduttore è uno scrittore. Ecco, qui penso che alcuni traduttori avrebbero qualcosa da ridire. Il problema sta nell’aura quasi sacra attribuita allo scrittore, cui il traduttore è sempre sottoposto. Giorgio Amitrano, per esempio, ha paragonato il traduttore all’artigiano, mentre allo scrittore spetta il titolo di artista (2011). Tantissime delle più comuni metafore con cui vengono descritti il traduttore e il suo lavoro sottolineano l’inferiorità e la derivatezza della traduzione (per esempio la traduzione come moglie infedele o il traduttore che segue le orme dello scrittore, si vedano Chamberlain 2004 e St. André 2010). Questa è forse una delle questioni più spinose che emerge dall’intervento di Edith Grossman e che domina il dibattito traduttivo contemporaneo: il complesso circolo vizioso che lega la percezione della traduzione come attività inferiore e secondaria, la conseguente invisibilità professionale del traduttore (per cui non vi è mai garanzia di condizioni contrattuali dignitose), la sfiducia degli editori verso la capacità di adattamento del lettore, la conseguente invisibilità che i traduttori stessi impongono su di sé “coprendo le proprie tracce” tramite l’adozione di strategie di traduzione “scorrevole” e “addomesticante” sono solo una parte della questione. Va anche considerato il dilemma di una traduzione che, se “scorrevole”, ha maggiori probabilità di vendere molto e diffondere il testo straniero tra i lettori della lingua d’arrivo ma, invisibile, rischia di non essere riconosciuta come espressione di una cultura altra. Invece, se la traduzione è “estraniante”, palesa la presenza della cultura e della lingua di partenza ma rischia di raggiungere solo un pubblico minimo. Inoltre l’incorporamento di elementi della lingua di partenza in quella d’arrivo prodotto da una traduzione “estraniante” rischierebbe di incrementare l’egemonia linguistica di una lingua d’arrivo dominante anziché ridurla (questa è una delle critiche mosse da Chesterman a Venuti, si veda Chesterman 2000, 29). Vi sono numerosi altri dibattiti attualmente in corso che toccano, da punti di vista diversi, il problema della percepita invisibilità e inferiorità della traduzione. Oltre a quello nato dalla celebre opera di Venuti (2008), vale anche la pena citare quello sull’aspetto creativo della traduzione (si vedano Boase-Beier e Holman 1999 e Perteghella e Loffredo 2006), quello sull’ampliamento del dibattito sulla traduzione stessa (Tymoczko 2007) e quello sullo sviluppo di canoni specifici per la critica della traduzione (Scott 2010).

La seconda smentita costituisce, per i traduttori, una vera e propria liberazione dalla condanna da tempo loro inflitta dalle espressioni “traduttore/traditore” e “poetry is what gets lost in translation”. Edith Grossman non condivide né l’una né l’altra e ci dice che, ben lontana dal rappresentare un tradimento, la traduzione non comporta una perdita, ma anzi un guadagno. Qui la traduttrice americana si oppone a un gran numero di traduttori – tra i quali Grigory Kruzhkov, che in una recente intervista all’Irish Times (Boland 2013) ha definito la traduzione “the art of losses” – e sottolinea con entusiasmo e fermezza il valore della traduzione come processo che arricchisce la cultura e la lingua d’arrivo. Ogni lingua, ci dice la Grossman, si espande quando si traduce verso di essa. Si importano nella lingua d’arrivo una serie di percezioni e giri di frase che prima non esistevano, permettendo alla lingua di espandersi. Riconosciamo nella convinzione del suo discorso il nocciolo di Why Translation Matters: l’imprescindibile importanza della traduzione come mezzo di apertura verso nuove lingue, culture e punti di vista. Edith Grossman non è la prima a esprimere idee di questo tipo: Paz (1992:153-154) e Holton (2004:15-16) hanno illustrato l’arricchimento linguistico e culturale che la traduzione apporta alla cultura d’arrivo e Keely (1989) ha sottolineato l’importanza della traduzione per preservare la “vita” di un testo. In questo contesto, continua Edith Grossman, la traduzione è importante anche perché permette ai traduttori e agli scrittori di “fare apprendistato” presso altri scrittori. Ci racconta dell’influenza delle opere di Faulkner tradotte in spagnolo su Garcia Marquez e dell’influenza di quelle di Garcia Marquez tradotte in inglese su moltissimi scrittori anglofoni contemporanei. Senza la traduzione, insomma, intere fette della letteratura “originale” mondiale non sarebbero mai esistite.

Per concludere, Edith Grossman smentisce uno di quei mantra prescrittivi che più si sente ripetere dai professionisti della traduzione in Italia: il traduttore deve rendersi invisibile all’interno della propria traduzione. Questa è un’idea condivisa da molti traduttori di fama, tra cui Anthea Bell (2004) e Martina Testa (intervistata in Carmignani 2008, 162-171). Nonostante vi siano ottimi argomenti a favore di questa tesi (si veda soprattutto Bell 2004), spesso, nel contesto italiano, essa viene ripetuta a un pubblico di traduttori o aspiranti traduttori come se si trattasse di un’ovvietà, di una regola infrangibile, senza contestualizzazione, senza dibattito critico, senza menzione di un’alternativa valida e soprattutto senza pensare al collegamento diretto tra l’invisibilità testuale del traduttore e quella professionale. Come dice Chesterman: “Invisbile translators, who seek to efface themselves textually, also tend to get effaced socially” (2000, 170). Edith Grossman non si addentra in questioni teoriche, del resto ha ammesso di non occuparsi di teoria, ma si limita a raccontarci ciò che fa lei: non cerca di rendersi invisibile all’interno della propria traduzione, anzi è una traduttrice che non ha paura di intervenire sul testo. In particolare, cerca sempre di rendere il testo in modo “gender neutral”. Interviene anche sui commenti razzisti, che non vuole riprodurre: i nativi americani delle sue traduzioni non sono mai “red-skins”, nonostante il termine corrispondente compaia nello spagnolo. Molti traduttori forse troveranno interventi di questo genere scioccanti, una violenza fatta nei confronti dell’autore e del testo di partenza. Probabilmente si tratta di interventi che Edith Grossman può permettersi di fare ma che per un traduttore meno noto varrebbero l’accusa di inaccuratezza. Il ribrezzo diffuso per l’intervento del traduttore si basa proprio sull’idea che il traduttore debba rimanere invisibile, idea che a sua volta ha origine in un particolare modo di percepire la traduzione (di cui si e detto già sopra) e che oggi, sempre più spesso, viene messo in dubbio (si vedano, in particolare, Scott 2010 e 2012, Tymoczko 2007). Molti traduttori e teorici della traduzione, infatti, hanno individuato un paradosso nel mondo della traduzione: le traduzioni vengono recensite dalle stesse persone che recensiscono la letteratura “originale” e in base agli stessi criteri (si vedano gli estratti di numerose recensioni raccolte da Grossman 2010 e Venuti 2008). La traduzione, per definizione, non è scrittura originale. E allora come si può creare una critica della traduzione che prenda in considerazione la vera natura di questo prodotto? Una proposta è di giudicare la traduzione per ciò che è realmente: un processo oltre che un prodotto. Il problema principale posto da una tale soluzione è che per giudicare la traduzione in quanto processo occorre che quel processo sia visibile. Uno studio dettagliato sullo sviluppo di nuovi parametri critici per la traduzione letteraria è stato proposto da Scott (2010). La questione di quante delle sue proposte si possano effettivamente mettere in pratica in un contesto non accademico resta complessa, soprattutto se consideriamo che persino note a piè pagina, o più semplicemente una breve nota del traduttore a inizio volume, sono ancora cosa rara nella pratica quotidiana. Non voglio certo suggerire che i traduttori dovrebbero rivedere completamente il loro modo di tradurre, né che il prossimo best-seller sarà tradotto (o andrebbe tradotto) con una strategia diversa dalla “scorrevolezza” che asseconda il lettore e nasconde il traduttore. Vorrei, però, suggerire che nell’ambito di convegni, seminari e scuole di traduzione, vengano considerate anche le conseguenze di determinate strategie traduttive sulla condizione professionale del traduttore, le strategie alternative e le varie direzioni che il dibattito critico sta prendendo. Tutto ciò è a mio avviso fondamentale affinché i traduttori e gli aspiranti tali siano sempre consapevoli non solo dei diversi punti di vista su argomenti noti, delle varie strategie traduttive che si possono adottare e della possibilità di crearne di nuove, ma anche del più ampio dibattito teorico. La diffidenza di molti traduttori nei confronti della teoria della traduzione è senz’altro comprensibile. Usata nel modo corretto, però, la teoria può essere uno strumento utilissimo. Jean Boase-Beier descrive una teoria (della traduzione, letteraria o di qualsiasi altra cosa) non come un quadro completo della disciplina cui si riferisce e neanche come una serie di prescrizioni, ma come uno solo dei possibili punti di vista su tale disciplina, un quadro parziale (2011, 161). In modo simile alla metafora, una teoria descrive il suo oggetto concentrandosi su un solo aspetto di esso, spesso un aspetto nuovo, e così facendo amplia la comprensione globale che abbiamo di quell’oggetto.

È proprio con la boccata d’aria fresca prodotta dal rovesciamento di quelle tre espressioni così trite, e con le domande suscitate da tale rovesciamento, che si chiude l’intervento di Edith Grossman alla University of East Anglia.

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