Commento su Edith Grossman (parte 1/2)

Ringraziamo Natalia De Martino e pubblichiamo (in due parti) il suo commento all’incontro con Edith Grossman che si è tenuto a Norwich lo scorso 24 maggio.

Edith Grossman: Why Translation Matters

Conferme e smentite tra teoria e pratica

di Natalia De Martino

Che nel mondo della traduzione vi sia un vero e proprio baratro tra la teoria e la pratica è un fatto ormai evidente, come hanno dimostrato Chesterman e Wagner (2001). Forse a volte dimentichiamo che i traduttori professionisti che vengono invitati a parlare in pubblico del proprio mestiere tendono, comprensibilmente, a esprimere consigli, opinioni o esperienze personali che però rappresentano un solo punto di vista sulla traduzione. Proprio perché si tratta di professionisti di successo, siamo portati ad accettare acriticamente le loro parole, come se descrivessero norme rigide e incontrovertibili, senza preoccuparci di contestualizzarle o per lo meno di sapere quale sia il rovescio della medaglia. Così, chi partecipa a seminari e conferenze sulla traduzione spesso corre il rischio di considerare frasi come “il traduttore deve rendersi invisibile all’interno del testo” o “un testo in traduzione perde sempre qualcosa” delle verità assolute. Per chi, come me, si occupa di traduzione in contesti molto diversi, quello inglese e quello italiano, quello accademico e quello professionale, il dibattito critico e il rovescio della medaglia sono elementi importanti.

Questo articolo integra i concetti espressi dalla traduttrice professionista Edith Grossman durante un intervento alla University of East Anglia (UEA) con alcune questioni al centro del dibattito teorico. Per una più immediata integrazione col contesto traduttivo attuale, l’intervento tenuto dalla traduttrice americana viene presentato tramite una suddivisione in “conferme”, ossia questioni riguardo alle quali Edith Grossman sì è dimostrata d’accordo con le opinioni più diffuse riguardo al mestiere del tradurre, e “smentite”, ossia questioni riguardo alle quali la Grossman si pone “controcorrente”.

Edith Grossman traduce dallo spagnolo verso l’inglese ed è particolarmente nota per le sue traduzioni della letteratura latino-americana (Gabriel García Márquez è uno degli autori di cui si è occupata). Nel 2003 ha anche realizzato una nuova traduzione del capolavoro di Cervantes. Il 23/5/2013 si rivolge alla trentina di studenti, traduttori e professori seduti nell’aula della UEA con una voce dal timbro incredibilmente profondo e con una lentezza che non appesantisce, ma anzi conferisce solennità, al suo discorso. Comincia parlando di sé, di come in origine non avesse alcuna intenzione di fare la traduttrice ma volesse occuparsi di critica letteraria. E qui, quasi parola per parola come appare nel suo libro sulla traduzione, Why Translation Matters, arriva la prima conferma: il traduttore è il miglior critico e il migliore lettore che un libro possa avere (Grossman 2010, 73). In questo caso Edith Grossman si conforma all’opinione di molti colleghi traduttori, inclusa, per esempio, Franca Cavagnoli, che dedica il primo capitolo del suo La voce del testo (2012) alla lettura critica dell’opera da tradurre. L’idea ci sembrerà forse poco più di un consiglio basato sul buon senso, e spesso è proprio così che viene presentata, ma vi sono anche numerosi studi di ricerca che confermano tale osservazione. Jean Boase-Beier si dedica da tempo allo studio dei modi in cui la traduzione può rivelare nuovi aspetti del testo fonte – con particolare attenzione alla poesia (Boase-Beier 2004, 2006) – e simili studi sono stati fatti nella prosa anche da Tim Parks (2007).

La seconda conferma arriva con un consiglio di editing: l’invito a leggere a voce alta. “The eyes forgive everything and the ears forgive nothing”, dice Edith Grossman. Meglio quindi affidarsi alle orecchie, soprattutto nei passaggi più problematici. Questo è un consiglio che viene dato non solo da molti traduttori e insegnanti di traduzione (spesso per fortuna, gli uni sono anche gli altri) ma anche da editor e revisori. Per la prosa si tratta forse, di nuovo, di semplice buon senso, di un metodo per assicurarsi che il testo “scorra”, che un passaggio problematico sia stato efficacemente risolto (e infatti il consiglio di Edith Grossman è rivolto soprattutto ai passaggi più complessi di un testo). Anche in questo caso il consiglio è ancora più fondamentale quando si tratta di tradurre poesia, in particolare se accettiamo la coincidenza, nel testo, di stile (quindi anche elementi ritmici e fonici) e significato. Ricerche approfondite riguardo al rapporto tra lo stile e il significato di un testo sono state condotte da Boase-Beier (2006 e 2004).

La terza conferma riguarda la lettura. Per tradurre bene bisogna leggere molto nella lingua d’arrivo, dice Edith Grossman, e anche qui sono numerose le voci che si uniscono al coro (si vedano Cavagnoli 2012, l’intervista ad Anna Nadotti in Carmignani 2008, 117-122 e quella ad Anna Ravano in Carmignani 2008, 156-161). Edith Grossman non lo dice, ma forse va aggiunto, che questo consiglio non riguarda solo la propria competenza linguistica, lo sviluppo del proprio “orecchio” interno, ma anche una conoscenza del mercato editoriale e dei gusti del lettore che il traduttore deve avere.

L’ultima conferma arriva quando Edith Grossman ci dice che il traduttore non traduce le parole dell’autore, ma la sua intenzione. Una conferma, quindi, del borgesiano “No escribas lo que digo, sino lo que quiero decir” (Rabassa 2002, 87). Il traduttore è invitato a tradurre non ciò che l’autore ha detto, ma ciò che voleva dire. Gregory Rabassa, con cui Edith Grossman ha lavorato molto, parte proprio dall’affermazione di Borges per spiegare come espressioni gergali o idiomatiche, insulti e localismi, non possono essere tradotti in modo letterale, ma è il loro “spirito” (simile all’intenzione di Edith Grossman) che va tradotto (Rabassa 1989, 2-3). Franco Nasi (2001, 140) si basa su considerazioni simili per opporre alla strategia di “fedeltà alla lettera” quella di “fedeltà allo spirito” (simile all’equivalenza dinamica descritta da Nabokov). Alla base di questa idea vi è tuttavia la premessa, non così scontata, che sia possibile stabilire con esattezza cosa l’autore volesse dire, che il testo incorpori un significato univoco e definitivo e che il lettore sia in grado di “decodificare” tale significato. La poetica cognitiva suggerisce, invece, che il testo non nasconde un significato univoco e che esso pertanto non possa essere decodificato dal lettore (o dal traduttore). Il significato sarebbe invece costruito a seconda del contesto cognitivo del lettore (si vedano a questo proposito Boase-Beier 2006 per l’ambito specifico della traduzione e dell’analisi stilistica e, più in generale, Stockwell 2002).