Commento al convegno sulle lingue di “minore diffusione” (Padova, 16-17/1/14)

Ringraziamo Marco Prandoni per questo commento.

Editoria e traduzione: focus sulle lingue di “minore diffusione” (Padova, 16-17 gennaio 2014)

di Marco Prandoni

Il titolo un po’ neutro e la formula politically correct escogitata per quelle lingue e culture oggi di modesta diffusione su scala europea e tanto più globale, ma in passato a volte con rilievo ben maggiore – l’ungherese nella Mitteleuropa asburgica, ovviamente il greco –, non faceva sospettare la passione che celava e l’entusiasmo che avrebbe suscitato, con un folto e variegato pubblico assiepato in un’aula di Palazzo Maldura a Padova.

La formula delle organizzatrici Cinzia Franchi (ricercatrice di lingua e letteratura ungherese all’Università di Padova) e Alexandra Foresto (docente di lingua ungherese all’Università di Udine e traduttrice) prevedeva infatti un tavolo plurale a cui sedessero professionisti ed esperti della traduzione, in tutte le sue sfaccettature – dagli aspetti teorici al momento pratico. Sebbene l’ungherese e il nesso Ungheria-Italia fossero il cuore pulsante del convegno (arricchito dalla proiezione del film Sándor Marai a Napoli. Il sapore amaro della libertà di Gilberto Martinelli), le organizzatrici hanno scelto di far partecipare alla discussione anche studiosi e traduttori di altre lingue europee “di minore diffusione”: romeno, greco, polacco, ceco, danese, neerlandese, finlandese, islandese (antico).

La joint venture di Padova e Udine si allargava così a molti studiosi dell’Università di Bologna (dove da alcuni anni è attivo il progetto E-LOCAL per l’insegnamento e la diffusione di sei less widely used languages) e anche di altri atenei e realtà professionali, non solo veneto-friulane. Il focus si è rivelato vincente. Si tratta di lingue e culture le cui dinamiche presentano infatti una serie di peculiarità e problematiche simili, solo in parte coincidenti con quelle delle lingue e culture maggiori. Da quell’intercapedine di “differenza” possono nascere riflessioni e pratiche in grado di interessare anche i circuiti maggiori.

In chiave storica, molti relatori hanno rilevato come la traduzione da queste lingue fino ad anni recenti avvenisse non direttamente, ma attraverso la mediazione di altre lingue, con il grave rischio di appiattimento o addomesticamento dell’alterità culturale. Un rischio che oggi pare scongiurato, grazie all’opera di grandi traduttori-ambasciatori (Pietro Marchesani per il polacco, Filippo Maria Pontani per il greco demotico, Bruno Berni per il danese, Franco Paris per il neerlandese) che hanno tradotto, o ritradotto, da queste letterature e aperto la strada a una nuova generazione di traduttori-mediatori specializzati e consapevoli.

Rimangono ovviamente le domande su come avvicinare il lettore italiano a quello che resta comunque un “grande altrove”: prendendolo per mano e avvicinandolo per gradi, solo da parte di locutori madrelingua della lingua d’arrivo, o precipitandolo nello spazio dell’alterità assoluta, con operazioni più rischiose ma anche più radicali? Le ricette sono molte, risposte apodittiche non esistono, come sappiamo dalle elaborazioni dei translation studies. Quasi tutti i presenti hanno comunque sottolineato la necessità di accompagnare le traduzioni a un’adeguata riflessione critica e ad apparati che aiutino il lettore nell’affrontare universi culturali che spesso gli sono completamente ignoti, sia nelle loro manifestazioni contemporanee sia, a maggior ragione, in quelle storiche.

Dal punto di vista editoriale, tutte queste lingue e culture manifestano il fenomeno dell’editoria assistita: le traduzioni vengono stimolate e sponsorizzate a livello istituzionale, nei paesi d’origine e in Italia. Se ciò permette ad autori di letterature poco note l’ingresso in Italia e a editori piccoli e spesso meritori di sopravvivere, d’altro canto ci si è chiesti fino a che punto l’offerta incontri una reale domanda di pubblico (come nel caso delle centinaia di romanzi greci tradotti da Crocetti in una vera e propria offensiva culturale) e se abbia senso affidare questi autori a circuiti editoriali a volte quasi invisibili e a editori purtroppo, e loro malgrado, senza distribuzione alcuna. Si può davvero ambire a un ripensamento dei canoni letterari globali, sull’esempio di quanto relizzato dalla poesia polacca nel secondo Novecento, a partire da tali presupposti?

Si sono poi manifestati dubbi sulla concentrazione quasi esclusiva sulla produzione letteraria contemporanea, difficilmente decodificabile da parte di chi ignori i processi storici e le tradizioni che le sono sottesi. Così, gli elementi grotteschi nella letteratura neorealistica romena della generazione dei trenta-quarantenni di oggi sono difficilmente comprensibili se non si conoscono i codici espressivi con cui certa letteratura romena “si difendeva” durante gli anni del socialismo reale.

In realtà, dagli interventi appassionati e frutto di interessanti posizionamenti e dalle discussioni, è emerso come ognuna delle categorie professionali rappresentate al convegno – filologi, mediatori culturali, traduttori professionisti, editori, attori istituzionali – attribuisca spesso la causa di alcuni di questi problemi “agli altri”. Così, gli studiosi accademici di lingue e letterature straniere lamentano che i traduttori e gli editori non li consultino, o non abbastanza, e criticano la mancanza in taluni traduttori di coscienza critica e rigore filologico. Criticano a volte persino l’eccesso di traduzioni, non sempre ben meditate e giustificate. I traduttori lamentano la deprecabile ingnoranza da parte di alcuni accademici delle più basilari regole del gioco. Tradurre è un mestiere, per quanto in Italia scarsamente riconosciuto e tutelato, la cui professionalità, che si conquista a caro prezzo, comporta certo e in primo luogo la consapevolezza di quanto si fa, ma anche il dover tener conto delle scadenze imposte da editori ed editor non sempre pazienti e di standard salariali minimi, messi a rischio da professori che traducono gratis et amore Dei, anzi pagano per veder pubblicate le proprie traduzioni, che poi varranno (o non varranno…) come titolo accademico per concorsi o abilitazioni nazionali (queste ultime spesso poco attendibili, nel caso delle lingue “di minore diffusione”). D’altro canto, gli editori da lingue minori, mossi quasi immancabilmente da forti motivazioni culturali che poco hanno a che vedere con la logica del profitto, lamentano la scarsa professionalità o comprensione di certi traduttori e professori “esperti”.

Insomma, tutti contro tutti? In parte sì, ma i presenti al convegno, anche grazie all’amabilità delle organizzatrici, hanno sdrammatizzato e relativizzato con ironia, arrivando alla conclusione che momenti d’incontro e confronto come quello di questo convegno sono proficui, sicuramente troppo rari. Il fatto di essere piccoli e a volte minori – ma rifiutando una vocazione minoritaria – può portare alla benefica necessità di stringere le maglie delle reti, tra traduttori editori ed esperti universitari, non solo di formazione strattamente linguistico-filologica, ma anche di aree attigue e spesso assai interessate ai circuiti delle lingue e culture meno frequentate (studi spettacolari, cultural studies, sociologie). Un’opportunità per queste lingue e culture “di minore diffusione”, e forse per tutti.