A proposito di Che lingua fa? («Nuovi Argomenti», n. 73)

di Maristella Notaristefano

 

Un diario che ripercorre i fatti salienti della storia linguistica degli ultimi cinquant’anni, sedici contributi di chi la lingua la «fa» e tredici sguardi sulla lingua letteraria di oggi, sulle questioni centrali dell’italiano degli anni zero e sulle evoluzioni nei prossimi decenni. Il numero 73 di «Nuovi Argomenti» sceglie come punto di partenza il dibattito aperto da Pier Paolo Pasolini nel dicembre del 1964 con l’annuncio della nascita dell’«italiano come lingua nazionale» per avviare una riflessione sulle nuove questioni linguistiche.
È forse la sezione dedicata alle osservazioni dei tredici storici della lingua italiana, con visioni a tratti convergenti e a tratti divergenti, a offrire spunti che varrebbe la pena approfondire. Con la nascita della «lingua nazionale» e il progressivo slittamento verso un uso medio e parlato, l’italiano letterario ha perso tanto la funzione di modello di riferimento come le sue tradizionali marche linguistiche (sintattiche, lessicali e non solo) per integrare una pluralità di tendenze. La mescolanza e l’alto grado di diversificazione sono sintomo di una «tendenziale crisi di identità» (Pietro Trifone) o un «evidente segno di vitalità» (Nicoletta Maraschio)? Si innestano in questo discorso la rivendicazione di una «lingua aliena» intrecciata a una buona storia per andare alla scoperta di verità nascoste (Nicola Lagioia); la necessità di riportare l’attenzione sull’arte della prosa e l’esplorare le infinite possibilità del codice linguistico, di per sé neutro, per scoprirne declinazioni personali e innovative (Emanuele Trevi); il bisogno di riaffermare la centralità della poesia nella letteratura e nella vita culturale italiana, il rifiuto di dogmatismi e omologazioni, il lavoro continuo su forma e contenuto (Carlo Carabba); l’editing come viaggio nella lingua, tra l’irrompere di nuove sollecitazioni e il dettato classico, in un dialogo continuo con l’autore (Giulia Ichino). Questa stessa tensione tra la norma e l’uso medio, difficilmente definibile perché influenzato dall’esperienza individuale, interessa anche l’italiano della traduzione, che è sempre frutto dell’incontro con una lingua-cultura straniera, con l’idioletto e lo stile personale dello scrittore, con la lingua del revisore (Ilide Carmignani).
Interessanti le pagine dedicate al dialetto, che ha assunto una nuova funzione sociolinguistica, è linfa della lingua (Andrea Camilleri), invenzione popolare (Franco Loi) e, perse le implicazioni sperimentali o realistiche, trova nuove possibili declinazioni in narrativa (Flavio Santi).
Tra i principali problemi linguistici dell’Italia degli anni zero spicca quello dell’insegnamento scolastico dell’italiano a tutti i livelli: come riferisce Tullio De Mauro nel suo Diario, dai risultati dell’indagine PIAAC 2013 e dai dati forniti dall’ISTAT emerge il quadro di una popolazione che si esprime prevalentemente nella lingua nazionale ma per il 70% non possiede le competenze minime «per orientarsi nella vita di una società moderna». Desta preoccupazione la scelta, specie in ambito tecnico-scientifico, dell’inglese come lingua della didattica, poiché «accelera la fine della nostra lingua come lingua di cultura» (Gian Luigi Beccaria) precludendo, nel lungo periodo, la possibilità di trasmettere in italiano intere branche del sapere, con serie conseguenze di ordine politico ed economico. Un altro pericolo è lo scollamento tra passato e presente, l’incapacità delle generazioni più giovani di confrontarsi con i classici della letteratura italiana, cui si collega il compito sociale e culturale di editor e filologi di curare il nostro patrimonio letterario, garantirne la qualità e favorirne la diffusione (Paola Italia).
Ormai anche «lingua degli altri» (Igiaba Scego), abitato e parlato da una generazione di italiani con cognome straniero, lingua della migrazione cui si arriva e da cui si riparte (Tahar Lamri), come evolverà l’italiano nei prossimi decenni? Le variabili in gioco sono tante, gli sviluppi difficilmente prevedibili. Evasive, ma sempre efficaci, sono le parole di Gino Capponi, ricordate da Bruno Migliorini alla fine della Storia della lingua italiana (1960) e citate nel volume da Paolo D’Achille e Pietro Trifone: «la lingua italiana sarà ciò che sapranno essere gli Italiani».